venerdì 25 ottobre 2024

Prima Strofa: Il fantasma di Marley

 

  Innanzitutto: Marley era morto. Su questo non vi era alcun dubbio. Il registro mortuario recava la firma del prete, dell’impiegato comunale, dell'impresario delle pompe funebri e del piagnone capo. Scrooge vi aveva apposto la sua: e il nome di Scrooge, alla Borsa dei Cambi, valeva quanto una sentenza, sotto ogni punto di vista. Il vecchio Marley insomma era morto, morto stecchito, come un chiodo di portone. [in originale “as dead as a door-nail”, equivalente appunto al nostro “morto stecchito”. Frase idiomatica risalente al 1300 e utilizzata anche da Shakespeare in Enrico IV parte II e Falstaff: “Falstaff: What! is the old king dead? Pistol: As a nail in a doornail”; come a rimarcare l’inutilizzabilità di un chiodo, il quale, essendo ribattuto, era “morto” a qualsiasi altra possibilità di riutilizzo].

  Badate! Con questo non voglio dare a intendere di conoscere, per esperienza diretta, cosa vi sia di particolarmente morto in un chiodo di portone. Per conto mio, sarei più propenso a considerare come il pezzo più stecchito di tutta la ferraglia attualmente in commercio un chiodo di catafalco. Ma poiché la saggezza dei nostri avi si esprime tutta per metafore, la mia sacrilega mano non oserà toccarla, sennò il paese è bello che spacciato. Lasciate dunque che io vi ripeta, solennemente, che il vecchio Marley era morto, morto stecchito, come un chiodo di portone.

  Scrooge era al corrente della sua morte? Ovviamente sì. Come avrebbe potuto non esserlo? Il sodalizio tra Scrooge e il morto si perdeva nella notte dei tempi. Scrooge era il suo unico esecutore testamentario, il suo unico procuratore, il suo unico erede, il suo unico legatario universale, il suo unico amico e l’unico a portare il lutto. E sebbene Scrooge non si sentisse particolarmente toccato dal triste evento, tuttavia si dimostrò un eccellente uomo d’affari proprio il giorno stesso del suo funerale, onorandone la memoria intascandosi tutto il suo patrimonio.

  L’aver menzionato il funerale di Marley ci riporta al punto di partenza. Non c’era dunque alcun dubbio che Marley fosse morto. Questo mettiamolo bene in chiaro, altrimenti nulla di meraviglioso potrà mai scaturire dalla storia che sto per raccontarvi. Se non siamo tutti perfettamente d’accordo sul fatto che il padre di Amleto fosse già morto prima di iniziare la commedia, non vi sarebbe niente di così straordinario nella sua passeggiatina notturna lungo i bastioni del suo maniero spazzato dal vento di levante, non più speciale di quella di un gentiluomo di mezza età che se ne esca sul far della sera in un posticino ventoso - poniamo, per ipotesi, il cimitero della cattedrale di San Paolo - giusto per far colpo sulla mente impressionabile del proprio figliolo.

  Scrooge non tolse mai dall’insegna il nome del vecchio Marley. Se ne stava ancora là, dopo tanti anni, sopra la porta dell’ufficio: Scrooge & Marley. La stessa ditta era conosciuta come Scrooge & Marley. Talvolta, qualcuno poco pratico d’affari chiamava Scrooge “Scrooge” e altre volte “Marley”. Ma lui rispondeva a tutti e due in nomi, per lui non faceva differenza.

  Oh! Era proprio uno spilorcio della malora il nostro Scrooge! Una strizza, spremi, gratta, arraffa, vecchia avida sanguisuga! Duro e affilato come una selce, da cui nessun acciarino aveva mai cavato una scintilla di generosità; impassibile, solitario, e chiuso in sé stesso come un’ostrica. Il ghiaccio che aveva dentro l'anima gli congelava i lineamenti da vecchio, gli affilava il naso aquilino, gli scavava le guance, gli irrigidiva i passi, gli arrossava gli occhi, gli colorava di blu le labbra sottili, e le parole uscivano taglienti dalla sua stridula voce. Un gelido velo di brina gli ricopriva il cranio, le sopracciglia, il mento appuntito. Dovunque andasse, si portava sempre apresso quel suo clima glaciale, che gli manteneva fresco l’ufficio nei giorni di caldo, e che non saliva d'un grado nemmeno a Natale.

  Caldo e freddo non avevano alcun effetto su Scrooge. Non c’era estate che lo scaldasse, né inverno che lo infreddolisse. Nessuna raffica di vento era più pungente, nessuna nevicata più ostinata, nessuno scroscio di pioggia più inesorabile di lui. Il maltempo non sapeva da che parte prenderlo. La pioggia più battente, la neve, la grandine, il nevischio, potevano vantare un solo vantaggio su di lui: spesso essi “si davano” generosamente, mentre Scrooge, mai.

  Nessuno lo fermava mai per strada per chiedergli, in modo gentile: “Mio caro Scrooge, come state? Quando mi farete visita?”. Nessun mendicante gli supplicava mai l’elemosina, nessun bambino gli chiedeva mai l’ora, né uomo o donna avevano mai osato rivolgersi a lui per chiedergli anche solo un’indicazione. Perfino i cani dei ciechi sembravano riconoscerlo, e quando lo vedevano arrivare, trascinavano il loro padrone in un vicolo o sotto un portone mettendosi a scondinzolare con la coda fra le gambe, come a dire: “Meglio non aver occhio piuttosto che malocchio, mio guercio padrone!”

  Ma a Scrooge che importava? Anzi, ci provava gusto. Avanzare lungo le strade affollate della vita intimando alla simpatia umana di farsi da parte, era quella che i più esperti chiamavano “la rotella fuori posto” di Scrooge.

  Un bel giorno - il più bel giorno dell’anno, la vigilia di Natale - il vecchio Scrooge se ne stava seduto come sempre occupatissimo nel suo ufficio contabile. Era una giornata gelida, tetra, di un freddo pungente, per di più nebbiosa, e si sentiva la gente andare su e giù per le strade battendosi le mani sul petto e pestando i piedi sul selciato per tentare di scaldarsi. Gli orologi della città avevano da poco suonato le tre, ma faceva già buio: per tutto il giorno c'era stata poca luce e le candele brillavano alle finestre degli uffici vicini come macchie rossastre sopra la densa aria scura. La nebbia si infilava in ogni fessura e buco di serratura, ed era così fitta che benché quel vicolo fosse uno dei più angusti, le case di fronte si distinguevano appena come dei fantasmi. A vedere la sudicia nube che era calata sulla città oscurando ogni cosa, si sarebbe detto che la Natura avesse preso casa lì vicino e si fosse messa a fermentare birra su larga scala.

  La porta dell’ufficio di Scrooge era aperta per dargli modo di tenere d’occhio l’impiegato, che in una squallida e angusta celletta lì di fianco, una specie di cisterna, era intento a ricopiare della corrispondenza. Il fuoco di Scrooge era davvero poca cosa, ma quello del suo impiegato era così ridotto ai minimi termini che sembrava alimentato da un singolo pezzetto di carbone. Ma non c’era modo di aggiungerne dell’altro, poiché Scrooge si teneva ben stretta la cesta del carbone dentro il suo ufficio, e quand'anche l’impiegato si fosse presentato alla porta con la paletta in mano, il padrone gli avrebbe prontamente comunicato che si sarebbe visto costretto a interrompere la loro collaborazione. Di conseguenza l’impiegato si stringeva nella sua candida sciarpa tentando di riscaldarsi alla flebile fiammella della candela, ma in questo tentativo, non essendo un uomo dotato di grande immaginazione, immancabilmente falliva.

  “Buon Natale, zio! Che Dio vi protegga!” gridò una voce allegra. Era la voce del nipote di Scrooge, la quale lo investì così improvvisamente da costituire il primo indizio della sua presenza.

  “Bah!” disse Scrooge, "Sciocchezze!"

  Si era talmente riscaldato, questo nipote di Scrooge, camminando a passo spedito nella nebbia e nel freddo, che aveva preso un bel colorito; il suo volto era arrossato e florido, gli occhi gli brillavano, e il suo fiato emanava nuvolette di vapore.

  “Natale una sciocchezza, zio?” disse il nipote di Scrooge. “Non lo pensate veramente, ne sono certo.”

  “E invece sì,” disse Scrooge. “Buon Natale! Che diritto avete, voi, di sentirvi così buono? Che motivo avete di essere così felice? Siete troppo povero per esserlo.”

  “Suvvia,” ribatté allegramente il nipote. “Che diritto avete voi di essere così triste! Che motivo avete di essere così scontroso! Siete troppo ricco per esserlo.”

  Scrooge, ritrovandosi in quel momento sprovvisto di una pronta risposta, si limitò a ripetere “Bah,” seguito dal suo solito "Sciocchezze!"

  “Non siate così amaro, zio,” disse il nipote.

  “E perché no?” disse lo zio in tutta risposta, “Quando vivo in un mondo pieno di matti. Buon Natale! Al diavolo il Buon Natale! Che cos’è il Natale se non il momento di saldare i debiti senza il becco d’un quattrino; il momento di ritrovarvi di un anno più vecchio senza essere di un’ora più ricco; il momento di tirare le somme dei vostri libri contabili e ritrovarvi con tutte le singole voci in perdita nel corso di tutti i dodici mesi precedenti? Fosse per me,” disse Scrooge sdegnato, “ogni idiota che se ne va in giro con un ‘Buon Natale’ stampato sulla punta della lingua, dovrebbe essere bollito insieme al suo pudding e seppellito con un rametto di agrifoglio piantato nel cuore. Ecco, quello sarebbe un Buon Natale!”

   “Zio!” lo supplicò il nipote.

  “Nipote!” ribatté severo lo zio, “Voi tenetevi pure il vostro Buon Natale, che io mi terrò il mio.”

  “Tenervelo!” ripeté il nipote di Scrooge. “Ma a quanto pare voi non ci tenete!”

  “E allora lasciatemi in pace” disse Scrooge. “E che buon pro vi faccia! Tutto quello che vi ha sempre fatto!”

  “Sono molte le cose da cui avrei potuto trarre profitto, e di cui, oserei dire, non ho mai approfittato,” disse in risposta il nipote, “e tra queste il Natale. Ma vi posso assicurare che ho sempre pensato a questo periodo dell’anno, ogni volta che si è presentato - a parte il rispetto dovuto al suo sacro nome e alle sue sacre origini, se mai si possa distinguere questo aspetto dal resto  - come un periodo felice, di gentilezza, di perdono, di gioia, di carità: l’unico periodo che io conosca, durante tutto il durevole corso dell’anno, in cui uomini e donne sembrano acconsentire di comune accordo a spalancare liberamente i loro angusti cuori, e a pensare alle persone meno fortunate come se queste fossero davvero delle povere creature che condividono il loro stesso destino, e non esseri di una specie inferiore confinati in un mondo diverso dal loro. E quindi, zio, anche se il Natale non mi hai messo in tasca una briciola d’oro né d’argento, credo che mi abbia fatto del bene, e continuerà a farmene anche in futuro, per questo io vi dico: Dio lo benedica!”

  All’impiegato scappò involontariamente un applauso: accortosi immediatamente dell’errore, si diede ad attizzare il fuoco estinguendone per sempre l’ultima impalpabile scintilla.

  “Un’altra intemperanza da parte vostra,” disse Scrooge, “e vi potrete tenere il vostro Natale in cambio della vostra occupazione! Siete davvero un formidabile oratore, signore,” aggiunse rivolto al nipote. “Mi chiedo come mai non siate già in Parlamento.”

  “Suvvia, non vi arrabbiate, zio! Venite a mangiare da noi domani.”

  Scrooge disse che piuttosto l’avrebbe visto andare all… sì, lo disse veramente. Terminò la frase e disse che piuttosto l'avrebbe visto andare all’inferno.

  “Ma perché?” esclamò il nipote. “Perché?”

  “E voi perché diamine vi siete sposato?” disse Scrooge.

  “Perché ero innamorato.”

  “Perché eravate innamorato!” grugnì Scrooge, come se fosse l’unica cosa al mondo più ridicola di un Buon Natale. “Buonasera!”

  “Andiamo, zio, non siete mai venuto a trovarmi nemmeno prima, perché usarla ora come scusa per non venire da noi?”

  "Buonasera," disse Scrooge.

  “Non voglio niente da voi, non vi chiedo niente, perché non possiamo essere amici?”

  “Buonasera,” disse Scrooge.

  “Mi dispiace, con tutto il cuore, di vedervi così risoluto. Non abbiamo mai avuto alcuno screzio di cui io possa ritenermi responsabile. Se ho fatto questo tentativo è stato esclusivamente in ossequio al Natale, e manterrò il mio spirito natalizio fino alla fine. Per questo io vi dico: Buon Natale, zio!”

  "Buonasera!" disse Scrooge.

  “E un felice Anno Nuovo!”

  “Buonasera!” disse Scrooge.

   Nonostante ciò, il nipote lasciò l'ufficio senza proferire una sola parola di biasimo. Si fermò presso la porta d'ingresso per fare gli auguri all’impiegato, il quale, nonostante fosse infreddolito, era pur sempre più caloroso di Scrooge, tanto che ricambiò cordialmente.

  “Eccone un altro,” mormorò Scrooge che l’aveva udito, “il mio impiegato da quindici scellini a settimana con moglie e figli a carico, che si mette a parlare di Buon Natale, roba da matti.” [in originale "I'll retire to Bedlam", "da finire al Bedlam", il Bethlem Royal Hospital di Londra, ospedale psichiatrico].

  Il matto in questione, facendo uscire il nipote di Scrooge, fece entrare altre due persone. Erano due robusti gentiluomini, di bell’aspetto, che ora stavano in piedi, con il cappello in mano, nell’ufficio di Scrooge. Avevano con loro dei libri e alcune carte, e gli rivolsero un inchino.

  “Scrooge & Marley suppongo?” disse uno dei gentiluomini, consultando la sua lista. “Ho il piacere di rivolgermi al signor Scrooge o al signor Marley?”

  “Il signor Marley è morto sette anni fa,” replicò Scrooge. “Precisamente sette anni fa, esattamente questa notte.”

  “Non dubitiamo che la sua generosità sarà molto ben rappresentata dal socio superstite,” disse il gentiluomo esibendo le sue credenziali.

  Non v'era da dubitarne: ai loro tempi lui e Marley erano stati proprio una bella coppia. Alla minacciosa parola “generosità” Scrooge aggrottò la fronte e scosse la testa, restituendo le credenziali al mittente.

  “Nel periodo delle festività, signor Scrooge,” disse il gentiluomo prendendo in mano una penna, “è più che mai auspicabile che tutti noi facciamo una piccola offerta per i poveri e per i bisognosi, che soffrono molto questo periodo dell’anno. In migliaia sono privi dell’indispensabile; e centinaia di migliaia non possono accedere ai beni di prima necessità, signore.”

  “Forse non vi sono più prigioni?” chiese Scrooge.

  “In gran quantità,” rispose il gentiluomo, posando la penna.

  “E le case-lavoro?” domandò Scrooge. “Sono ancora attive?”

  “Lo sono ancora,” disse in risposta il gentiluomo, “anche se in realtà preferirei vivamente che non lo fossero.”

  “E il mulino dei forzati, la legge sui poveri, sono ancora in vigore?” disse Scrooge.

  “Entrambe in pieno vigore, signore.”

  “Oh! Da quel che avevo intenso, per un attimo ho temuto che fosse intervenuto qualcosa a interrompere l’utilissimo corso di queste meritevoli istituzioni,” disse Scrooge. “Sono felice di apprendere il contrario.”

[riferimenti alle "Union-Workhouses", case villaggio in cui poveri e senzatetto ricevavano sostentamento e riparo in cambio di un lavoro, previste dalla "Poor Law", antico sistema di welfare del Regno Unito in vigore dal medioevo fino alla fine della seconda guerra mondiale; e per seguire il "Treadmill", il cosiddetto "mulino dei forzati", cioè i lavori forzati alla ruota dapprima con lo scopo di macinare il grano, poi inflitti come mera punizione carceraria, vi fu sottoposto anche Oscar Wilde in seguito alla condanna per sodomia.]

  “Animati dal pensiero che non si faccia molto per offrire ai più una cristiana serenità di spirito e di corpo,” rispose il gentiluomo, “alcuni di noi si stanno prodigando per raccogliere fondi e dare ai poveri cibo e il necessario per scaldarsi. Abbiamo scelto questo periodo dell’anno perché è un periodo in cui più di altri il Bisogno è forte, e l’Abbondanza rallegra. Quanto posso segnare a vostro nome?”

   “Un bel niente!” rispose Scrooge.

  “Desiderate forse rimanere anonimo?”

  “Desidero essere lasciato in pace,” disse Scrooge. “Dal momento che mi chiedete cosa desidero, signori, questa è la mia risposta. Non sono avvezzo a rallegrarmi del periodo natalizio, e non posso altresì permettermi di rendere allegri degli scansafatiche. Io contribuisco a sostenere le meritevoli istituzioni che ho precedentemente menzionate, esse hanno già un costo considerevole per la società, e tutti coloro che si trovano in difficoltà dovrebbero rivolgersi a loro.”

  “Molti non la possono fare, e molti altri preferirebbero morire.”

  “Se preferiscono morire,” disse Scrooge, “ebbene che lo facciano pure, così da sfoltire la popolazione in eccesso. Peraltro, e vogliate scusarmi, sono cose che non mi interessano.”

  “Ma potrebbero interessarvi,” osservò il gentiluomo.

  “Non sono affari che mi riguardano,” ribatté Scrooge. “Già tanto che un uomo si interessi dei propri affari e non metta becco in quelli altrui. I miei affari mi tengono già abbastanza occupato. Buonasera, gentiluomini!”

  Vedendo chiaramente che sarebbe stato inutile insistere oltre, i gentiluomini batterono in ritirata. Scrooge ritornò al suo lavoro con un’accresciuta opinione di sé, e con l’umore più allegro del solito.

  Frattanto la nebbia e il buio si erano così infittiti che la gente si era messa a correre per strada, armata di torce accese, offrendosi di mettersi davanti ai traini delle carrozze per condurli a destinazione. L’antica torre di una chiesa, la cui vecchia e rauca campana faceva da sempre capolino da una finestrella gotica incassata nel muro sopra l’ufficio di Scrooge, s’era fatta invisibile e batteva i quarti e le ore in mezzo alle nuvole in rintocchi seguiti da tremolanti vibrazioni, come se, da lassù, stesse battendo i denti dentro la sua volta gelata. Ancora più freddo. Sulla strada principale, all’angolo del vicolo, alcuni operai che stavano riparando le condutture del gas avevano acceso un grande fuoco in un braciere intorno al quale si era riunita una grand folla di uomini e di bambini cenciosi: si scaldavano le mani socchiudendo beati gli occhi davanti al focolare. Lo zampillo della fontanella, abbandonato a se stesso, si era scontrosamente congelato tramutandosi in misantropico ghiaccio. Le luci dei negozi, dove i ramoscelli di agrifoglio crepitavano al calore delle lampade appese alle finestre, coloravano i volti pallidi dei passanti. La merce dei droghieri e dei pollivendoli sfolgorava nelle vetrine, formidabile esposizione che sembrava non avere nulla a che spartire con i concetti così tediosi della commercializzazione e della vendita. Il Signor Sindaco, nel fortino del suo gran municipio, ordinava ai suoi cinquanta cuochi e maggiordomi di preparare un Natale come si conviene a un vero Signor Sindaco; e persino il piccolo sarto, che il lunedì precedente era stato multato di cinque scellini per ubriachezza molesta in mezzo alla strada, ora rimestava nella sua soffitta il pudding per l’indomani, mentre la sua esile consorte usciva con il suo bambino a comperare il manzo.

  Ancora più nebbia, ancora più freddo! Un freddo pungente, tagliente, penetrante. Se il buon san Dunstano avesse afferrato il Demonio per il naso con un simile gelo anziché usando le sue celebri pinze, allora sì che l’avrebbe fatto gridare! [riferimento a San Dustano di Canterbury, il quale, secondo la leggenda, respinse il diavolo tentatore con un paio di pinze da fabbro]. Il proprietario di un giovane e scarno naso, rosicchiato e smangiato dal freddo famelico come un osso masticato dai cani, si chinò sul buco della serratura di Scrooge per omaggiarlo di un canto di Natale: ma al primo

Che Dio vi porti lieto la pace, o buon signore!
Che nulla possa affliggervi!

[prime strofe di “God Rest You Merry, Gentlemen”, noto canto natalizio]

Scrooge afferrò il righello con tale furia che il cantore fuggì via terrorizzato, lasciando il buco della serratura alla nebbia e al suo ancor più congeniale gelo.

  Alla fine arrivò l’ora di chiudere. A malincuore Scrooge smontò dal suo sgabello, dando così un tacito segnale all’impiegato che fremeva dentro la sua cisterna, il quale spense subito la candela e si infilò in testa il cappello.

  “Suppongo che domani vorrete prendervi tutta la giornata libera.”

  “Se per voi non è di disturbo, signore.”

  “In effetti lo è,” disse Scrooge, “e non lo trovo giusto. E se per questo decidessi di trattenervi mezza corona? Magari pensereste che vi stia facendo un torto, non è così?”

  L’impiegato abbozzò un timido sorriso.

  “E invece,” disse Scrooge, “se vi pagassi l’intera giornata per non fare nulla non vi passerebbe nemmeno per l'anticamera del cervello che il torto lo stiate facendo a me!”

  L’impiegato osservò che ciò accadeva solo una volta all’anno.

  “Una ben misera scusa per mettere le mani nelle tasche della gente ogni venticinque dicembre!” disse Scrooge, abbottonandosi il pastrano fino al mento. “Ma suppongo che dobbiate prendervi l’intera giornata libera. Perlomeno l’indomani vedete di essere qui di buonora!”

  L’impiegato promise che lo avrebbe fatto senz'altro; e Scrooge se ne uscì brontolando. In un batter d’occhio l’ufficio venne chiuso, e l’impiegato, con gli orli della sua candida sciarpa che gli penzolavano in vita (poiché non poteva permettersi di possedere un pastrano), scese giù per una discesa a Cornhill, alla fine di una stradina piena di ragazzi, scivolando sul ghiaccio almeno una ventina di volte in onore della vigilia di Natale, per poi correre a rompicollo verso casa, a Camden Town, per giocare a mosca cieca.

  Scrooge consumò la sua malinconica cena nella sua solita, malinconica, locanda; e avendo letto tutti i giornali, e trascorso il resto della serata a controllare i libri contabili, si avviò verso casa per mettersi a letto. Abitava in un agglomerato di appartamenti che erano stati di proprietà del suo defunto socio. Erano una serie di stanze buie e tetre, in una pila di bassi edifici in fondo a un cortile, dove apparivano così fuori luogo rispetto al resto che si poteva quasi immaginare che fossero finiti lì da ragazzi giocando a nascondino con le altre case, rimanendovi poi intrappolati perché avevano smarrito la via di uscita. Adesso si erano fatti così vecchi, e così tetri, che nessuno vi abitava a parte Scrooge, mentre gli altri locali erano stati affittati come uffici. Il cortile era così buio che perfino Scrooge, che pure ne conosceva palmo a palmo ogni singola pietra, avanzava brancolando a tentoni. Nebbia e ghiaccio si erano così tenacemente attaccati al vecchio portone nero dell’abitazione che sembrava che seduto sulla soglia vi fosse il Genio stesso dell’Inverno sprofondato in lugubri meditazioni.

  Ora, è un dato di fatto che il battente del portone non avesse di per sé nulla di particolare, eccetto per il fatto che fosse un gran bel battente. Era altresì un fatto che Scrooge lo aveva abbondantemente visto ogni mattina e ogni sera da quando aveva preso residenza in quel palazzo; e pure che Scrooge era, fra tutti gli abitanti della città di Londra, il meno dotato di immaginazione, meno ancora - ed è tutto dire - dei membri delle corporazioni, dei consiglieri comunali e dei funzionari in divisa. Si tenga ben presente, inoltre, che Scrooge non aveva più pensato a Marley dal momento in cui aveva menzionato, quel pomeriggio, la sua dipartita avvenuta sette anni prima. E dunque qualcuno di voi mi spieghi, se può, come fu che Scrooge, infilata la chiave nella toppa, e senza che nessun elemento esterno fosse nel frattempo intervenuto a mutarne le condizioni, avesse visto non un battente, ma il volto di Marley.

  Il volto di Marley. Non era immerso in un’impenetrabile oscurità come lo era tutto il resto nel cortile, ma era circondato da una tetra luminescenza, similmente a un’aragosta andata a male in fondo a un buio scantinato. Non appariva arrabbiata né feroce, ma osservava Scrooge com’era solito fare Marley: con gli occhiali da spettro sollevati sulla sua fronte di spettro. I suoi capelli erano curiosamente arruffati, come sollevati da uno sbuffo di vapore, e sebbene i suoi occhi fossero completamente sbarrati, rimanevano fissi e immobili. Tutto questo, unito al colorito livido, lo rendeva orribile; ma di un orrore che pareva estraneo al suo volto e alla sua volontà, come se gli fosse stato imposto da qualcos'altro.

  Non appena Scrooge tentò di mettere meglio a fuoco il fenomeno, il battente ritornò a essere un battente.

  Dire che non ne rimase sbalordito, o che le sue viscere non fossero consapevoli di un tremendo presentimento che gli era rimasto estraneo fin dall’infanzia, non corrisponderebbe a realtà. Nondimeno afferrò di nuovo la chiave che aveva lasciato sollevata a mezz’aria per un momento, la girò con decisione nella toppa, entrò e accese la candela.

  Si arrestò, esitando un attimo nell’androne prima di chiudere la porta dietro di sé; per gettarvi prima una cauta occhiata, quasi che si aspettasse la visione terrificante del codino di Marley che spuntava dall’altra parte. Ma dietro la porta non vi era niente, eccetto che le viti e i bulloni che reggevano il battente, così bonfonchiò: “bah, bah!” e la richiuse con un gran tonfo.

  Il suono rimbombò nella casa come un tuono. Ogni singola stanza di sopra, ogni singola botte nella cantina del vinaio sottostante, sembrò produrre un suo eco distinto e riconoscibile. Ma Scrooge non era uomo d’aver paura degli echi. Assicurò la porta e continuò ad avanzare, risalendo lentamente le scale e smoccolando la candela mano a mano che saliva.

  Ora, si potrebbe anche immaginare di condurre un tiro a sei su per una gran rampa di scale, o magari di passare attraverso un gigantesco buco di bilancio; ma quel che intendo è che per quelle scale sarebbe potuto passarvi anche un carro funebre di traverso, col timone rivolto verso il muro e lo sportello alla ringhiera, e farlo senza alcuna difficoltà. Spazio ve n’era a sufficienza, e per giunta d’avanzo; e forse fu proprio per quello che Scrooge si figurò di aver visto nel buio un carro funebre grosso come una locomotiva passargli davanti al naso. Una mezza dozzina di lampioni a gas in mezzo alla strada non sarebbero bastati a illuminare a sufficienza quell'androne, per cui potete immaginarvi quale oscurità vi albergasse alla luce della sola candela di Scrooge.

  Scrooge continuò a salire, per niente impressionato da tutto ciò: l’oscurità costava poco, e per questo a Scrooge piaceva. Ma prima di tirarsi dietro la pesante porta del suo appartamento fece il giro delle stanze per controllare che non vi fosse nulla fuori posto. Il ricordo dell’apparizione di quel volto bastò a spingerlo a procedere all’ispezione: salotto, camera da letto, ripostiglio. Tutto in ordine. Nessuno sotto il tavolo, nessuno sotto il divano; un fuocherello acceso nel caminetto; pronti cucchiaio e scodella; e il pentolino del porridge (Scrooge era un po’ raffreddato) in caldo sul focolare. Nessuno sotto il letto; nessuno dentro l’armadio; nessuno dentro la vestaglia che pendeva appesa al muro in posizione sospetta. Il ripostiglio appariva in ordine. Il vecchio parafuoco, le vecchie scarpe, due cestini per il pesce, un catino su un treppiede e un attizzatoio.

  Relativamente soddisfatto, chiuse la porta, e, contrariamente alle sue abitudini, diede due belle mandate. Sentendosi al riparo da sgradite sorprese, si tolse la cravatta, si infilò vestaglia e pantofole e il suo berretto da notte; e si sedette davanti al fuoco per mangiare il suo porridge.

  Era davvero un piccolo fuocherello, praticamente insignificante per una notte fredda come quella. Fu costretto ad avvicinarsi, e a sporgersi in avanti prima di ricavare la pur minima sensazione di tepore da quel mucchietto di legna. Era un vecchio caminetto, fatto costruire da un mercante olandese molto tempo addietro, rivestito con pittoresche mattonelle fiamminghe che recavano immagini delle Antiche Scritture. Vi apparivano dei Caini e degli Abeli; alcune figlie del Faraone, Regine di Saba, angelici messaggeri che discendevano dall’alto su nubi che parevano cuscini di piume, Abrami, Baldassarri, Apostoli che prendevano il mare a bordo di piccole barchette a forma di vaschette portaburro, centinaia di figure che attiravano la sua attenzione; eppure quel volto di Marley, morto sette anni prima, vi comparve come la verga dell’antico Profeta a inghiottire ogni cosa. Se ciascuna di quelle lisce mattonelle fosse stata lasciata in bianco, con la capacità di visualizzare sulla loro superficie gli sconnessi e frammentati pensieri di Scrooge, su ciascuna di esse sarebbe apparsa una copia del volto del vecchio Marley.

  "Sciocchezze!" disse Scrooge; e si mise a camminare per la stanza.

  Fatti diversi giri, si mise di nuovo a sedere. Non appena appoggiò la testa sullo schienale della sedia, lo sguardo gli si posò su una campanella, una campanella in disuso, che pendeva nella stanza e che comunicava per qualche ragione ormai dimenticata con una camera all’ultimo piano dell’edificio. Fu con gran stupore, e con uno strano, inspiegabile sgomento, che vide la campanella muoversi mentre la fissava. Dapprima così impercettibilmente da non emettere alcun suono; ma ben presto mettendosi a risuonare indiavolata portandosi appresso tutte le altre campanelle dell'appartamento.

  Il tutto poteva essere durato un minuto, un minuto e mezzo, ma a Scrooge parve un'eternità. Poi, così come avevano iniziato, tutte le campanelle smisero all’unisono di suonare. Seguì un fragore di ferraglia proveniente dal basso, come se qualcuno stesse trascinando una pesante catena sopra le botti di vino. Scrooge si ricordò allora di aver sentito dire che i fantasmi che infestano le case si trascinano appresso delle catene.

  La porta della cantina si aprì di schianto, e poi sentì quel rumore sempre più vicino, al piano di sotto; poi salire lungo le scale; e infine puntare diritto alla sua porta.

  “Ancora sciocchezze!” disse Scrooge. “Non posso crederci.”

  Tuttavia gli toccò sbiancare quando, senza incontrare la benché minima resistenza, quell’essere passò attraverso la pesante porta d’ingresso ed entrò nella stanza apparendo davanti ai suoi occhi. Al suo arrivo, la dileguante fiammella nel focolare ebbe un guizzo, come a gridare: “Io lo conosco! È il fantasma di Marley!”, per riaffievolirsi subito dopo.

  Lo stesso volto: lo stesso identico volto. Marley con il suo codino e il suo consueto panciotto, gli stessi calzoni, gli identici stivali le cui nappine svolazzavano per aria, così come il codino e le falde del cappotto, e i capelli sulla testa. Stretta intorno alla vita si trascinava una catena. Era lunga, e gli girava tutt'intorno come una coda; ed era composta (poiché Scrooge ora la poteva osservare ben da vicino) da cassette, chiavi, lucchetti, registri contabili, atti notarili e pesanti portamonete lavorati in acciaio. Il suo corpo era trasparente; così che Scrooge, osservandolo, poteva scorgerne i due bottoni sul retro della giacca attraverso il panciotto.

  Scrooge in effetti aveva sempre sentito dire che Marley era uomo sprovvisto di visceri, ma non aveva mai pensato fino a quel punto.

  No, nemmeno adesso ci credeva. Nonostante riuscisse ad attraversare con lo sguardo lo spettro da parte a parte, e lo vedesse lì in piedi ergersi davanti a lui; nonostante fosse sotto il gelido influsso dei suoi freddi occhi di morto e riuscisse a distinguere la trama del fazzoletto che gli teneva la mandibola attaccata alla testa, particolare che in un primo momento non aveva notato, Scrooge continuava a non voler credere, e lottava contro i suoi stessi sensi.

  “E dunque?” disse Scrooge, freddo e caustico come sempre. “Che vorresti da me?”

  “Molto!” era la voce di Marley, non v’era alcun dubbio.

  “Chi saresti?”

  “Chiedimi piuttosto chi sono stato.”

  “Chi sei stato, dunque?” disse Scrooge alzando il tono di voce. “Mi sembri un po’ pignolo per essere un’ombra.” Stava per dire “solamente un’ombra” ma si corresse subito ritenendo che fosse meglio così.

  “In vita fui il tuo socio, Jacob Marley.”

  “Riusciresti… riusciresti a metterti a sedere?” chiese Scrooge, guardandolo dubbioso.

  “Certamente.”

  “Allora fallo.”

  Scrooge gli aveva rivolto questa domanda perché non sapeva bene se un siffatto fantasma così etereo fosse stato in grado di farlo; e qualora non fosse stato in grado, sentiva che la situazione avrebbe comportato per lo spettro una qualche spiegazione imbarazzante. Ma il fantasma si sedette sul lato opposto del caminetto con una certa disinvoltura, come se fosse abituato a farlo.

  “Tu non mi credi,” osservò il Fantasma.

  “No,” disse Scrooge.

  “Quale prova vorresti della mia presenza più di quella che ti forniscono i tuoi sensi?”

  “Non saprei,” disse Scrooge.

  “Perché dubiti dei tuoi sensi?”

  “Perché,” disse Scrooge, “basta un niente a confonderli. È sufficiente un lieve disturbo di stomaco per farsi ingannare. Magari sei solo un boccone di carne mal digerito, o un grumo di senape, o una crosta di formaggio, o magari un pezzetto di patata rimasta cruda. Insomma c’è più salsa che salma in te, qualunque cosa tu sia!”

  Scrooge non era molto portato per i giochi di parole, né si sentiva, in quel particolare momento, in vena di scherzi. In realtà abbozzò quel gioco di parole solo allo scopo di distrarsi e per tenere sotto controllo la paura, dato che la voce dello spettro gli penetrava nelle ossa fin dentro il midollo. Sentiva che se fosse rimasto lì seduto a fissare in silenzio quegli occhi vitrei e sbarrati, per lui sarebbe stata la fine. C’era poi un’altra cosa di terribile, e cioè che lo spettro sembrava avvolto in una sua aura infernale. Scrooge non era in grado di distinguerla, ma la percepiva chiaramente: benché il Fantasma sedesse perfettamente immobile, i suoi capelli, le falde del soprabito e le nappine degli stivali continuavano a flutturagli intorno come mossi dal vapore caldo di una fornace.

  “Lo vedi questo stuzzicadenti?” disse Scrooge, ritornando immediatamente alla carica per le ragioni sopra descritte, nel tentativo di distogliere da sé anche solo per un istante quello sguardo glaciale.

  “Lo vedo,” rispose lo Spettro.

  “Tuttavia non lo stai guardando,” disse Scrooge.

  “Ma lo vedo comunque,” disse ancora lo Spettro.

  “Bene!” ribatté Scrooge. “Perché mi basterebbe inghiottire uno solo di questi per essere perseguitato per il resto della giornata da una legione di spiritelli molesti, tutti di mia sola invenzione. Sciocchezze, te lo dico io, nient’altro che sciocchezze!”

  A questo punto lo Spettro cacciò un urlo spaventoso e scosse così fragorosamente la catena sollevando un tale fracasso che Scrooge dovette afferrarsi alla poltrona per evitare di cadere a terra svenuto. Ma ancor più grande fu lo spavento quando lo spettro, come se lì dentro facesse troppo caldo, si sciolse il fazzoletto che teneva legato attorno alla testa lasciando cadere la mandibola sul petto!

  Scrooge crollò sulle ginocchia coprendosi il volto con le mani.

  “Pietà!” disse. “Orribile apparizione, perché mi perseguiti?”

  “Uomo di poca fede!” replicò il Fantasma, “mi credi adesso o no?”

  “Sì, ti credo,” disse Scrooge. “Non posso altrimenti. Ma perché gli spiriti vagano sulla terra, e perché mai mi vengono a cercare?”

  “È richiesto agli uomini” disse in risposta il Fantasma, “che lo spirito che alberga dentro ognuno di loro debba vagare in mezzo ai suoi simili, e che debba viaggiare in lungo e in largo; e se non lo fa in vita, è condannato a farlo dopo la morte. Sarà condannato a errare per il mondo - ahimè - e a vedere il bene senza poterne godere, quel bene che avrebbe potuto donare agli altri quand’era ancora in vita, e che avrebbe fatto la sua felicità!”

  Il Fantasma urlò di nuovo, scuotendo la catena, torcendosi le mani spettrali.

  “Sei incatenato,” disse Scrooge, tutto tremante. “Perché?”

  “Porto una catena che io stesso mi sono fabbricato in vita,” replicò il Fantasma. “Me la fabbricai anello per anello, pezzo per pezzo; me la strinsi io stesso, di mia volontà, e per mia volontà la indossai. Ti rammenta qualcosa la sua forma?”

  Scrooge tremava sempre di più.

  “O vorresti conoscere,” proseguì il Fantasma, “peso e lunghezza delle grosse catene che tu stesso ti trascini? Erano lunghe e pesanti proprio quanto le mie, sette vigilie fa. Da allora non hai mai smesso di lavorarvi. Sono gigantesche!”

  Scrooge si guardò intorno scrutando il pavimento, come se si aspettasse di trovarsi circondato da cinquanta o sessanta braccia di catene, ma non vide niente.

  “Jacob,” disse, implorandolo. “Vecchio Jacob Marley, dimmi di più. Dammi un po’ di conforto, Jacob.”

  “Non ho alcun conforto da darti,” rispose il Fantasma. “Arriverà, ma da altre regioni, o Ebenezer Scrooge, e viene concesso da ben altri ministri a uomini di ben altra levatura della tua. Né posso dirti tutto quello che vorrei. Pochissimo è quello che mi è ancora concesso. Non mi è concesso di trovare riposo, non mi è concesso di soffermarmi in nessun luogo. Il mio spirito non si è mai allontanato dal nostro ufficio contabile - ascolta bene! - in vita il mio spirito non si è mai spinto più in là degli angusti confini di quel nostro tugurio; lunghi e faticosi viaggi mi attendono ormai!”

  Era abitudine di Scrooge, ogni volta che si faceva pensieroso, di infilarsi le mani nelle tasche dei pantaloni. Così fece in quel momento, mentre rifletteva sulle parole del Fantasma, ma senza sollevare gli occhi da terra e restandosene in ginocchio.

  “Te la sei presa comoda, Jacob,” osservò Scrooge in tono professionale, tuttavia con umiltà e deferenza.

  “Presa comoda!” ripeté il Fantasma.

  “Morto da sette anni,” precisò Scrooge, “e hai viaggiato tutto il tempo?”

  “Tutto il tempo,” disse il Fantasma. “Senza posa, senza pace. Sotto l’incessante tortura del rimorso.”

  “E sei molto veloce?” disse Scrooge.

  “Come il vento,” replicò il Fantasma.

  “Ne dovresti aver fatta di strada in sette anni!” disse Scrooge.

  Udendo queste parole, il Fantasma lanciò un altro grido e scosse così fragorosamente la catena nell’assoluto silenzio della notte che la Guardia in fondo alla strada avrebbe potuto notificargli l’accusa di disturbo alla quiete pubblica.

  “Oh! Tu, schiavo, imprigionato, e doppiamente incatenato,” urlò lo spettro, “al non sapere che secoli e secoli di incessante lavorio compiuto da creature immortali per il bene di questa terra, passeranno nell’eternità prima che tutto il bene di cui è capace abbia avuto anche solo la possibilità di essere tradotto in pratica; al non sapere che ogni spirito cristiano, pur lavorando entro gli angusti limiti della sfera assegnatagli, quale essa sia, troverà troppo breve il tempo mortale per le sue vaste possibilità d’impiego; al non sapere che non v’è misura di rimorso per le occasioni sprecate di una vita perduta! Eppure anch’io ero così! Oh! Anch’io ero così!”

  “Ma tu sei sempre stato un eccellente uomo d’affari, Jacob,” farfugliò Scrooge, che ora iniziava a misurarsi con quanto gli veniva detto.

  “Affari!” urlò il Fantasma, torcendosi di nuovo le mani. “I miei simili erano i miei affari! Il bene di tutti, la carità, la misericordia, la tolleranza, la benevolenza, questi erano i miei affari! Nel vasto oceano dei miei affari le transazioni commerciali non erano che una minuscola goccia!”

  “Sollevò la catena per quanto il braccio era lungo, come se quella fosse la fonte di tutta la sua inesauribile afflizione, per poi gettarla nuovamente, e pesantemente, a terra.

  “È in questo periodo dell’anno,” disse lo spettro, “che soffro maggiormente. Perché mai io ho camminato tra la folla dei miei simili guardando a terra, senza mai sollevare gli occhi alla Stella benedetta che condusse i Magi a quella povera capanna? Non ve n’erano forse altre di povere capanne, qui sulla terra, alle quali la sua luce avrebbe potuto condurmi?”

  Scrooge era così atterrito nell’udire lo spettro proseguire su quel tono, che iniziò a tremare in modo incontrollato.

  “Ascolta!” urlò il Fantasma. “Il mio tempo qui è scaduto.”

  “Ti ascolterò,” disse Scrooge. “Ma non essere così duro con me! Non essere così misterioso, Jacob! Ti supplico!"

  “Non sono in grado di spiegarti come sia possibile che ti compaia davanti in una forma a te comprensibile. Per molti giorni ti sono stato accanto, invisibile.”

  Non era un'idea molto confortante. Scrooge rabbrividì, e si asciugò il sudore dalla fronte.

  “E questa non è la parte più lieve della mia condanna,” proseguì il Fantasma. “Sono qui, questa notte, per darti un avvertimento: hai ancora una possibilità e una speranza di sfuggire al mio destino. Una possibilità e una speranza che sono io a procurarti, Ebenezer.”

  “Mi sei sempre stato amico,” disse Scrooge. “Ti ringrazio!”

  “Sarai visitato,” riprese il Fantasma, “da Tre Spettri.”

  La mandibola di Scrooge scese a terra quasi quanto quella del Fantasma.

  “È questa la possibilità e la speranza che mi hai menzionato poc'anzi, Jacob?” domandò la voce tremante di Scrooge.

  “È questa.”

  “Io… Io credo che preferirei non incontrarli,” disse Scrooge.

  “Non incontrandoli,” disse il Fantasma, “non potrai evitare il destino che mi è toccato. Attendi il primo per domani, quando la campana suonerà l’una.”

  “Non potrei incontrarli tutti e tre insieme, e farla finita in una volta sola, Jacob?” suggerì Scrooge.

  “Attendi il secondo la notte successiva alla stessa ora. Il terzo la notte dopo, quando l’ultimo rintocco delle dodici avrà smesso di suonare. Bada, non mi rivedrai più; e bada, per il tuo bene, di tenere a mente quanto ti ho detto!”

  Pronunciate queste parole, lo spettro raccolse il fazzoletto dal tavolo e se lo legò di nuovo intorno alla testa. Scrooge se ne accorse dallo scatto secco che fecero i denti una volta che la mandibola fu di nuovo riattaccata al suo posto. Solo allora si azzardò a sollevare lo sguardo e vide che il suo soprannaturale visitatore stava in piedi ritto davanti a lui, con la catena avvolta attorno al braccio.

  L’apparizione cominciò a indietreggiare, e a ogni suo passo la finestra si alzava di un poco, così che quando lo spettro le fu vicino era completamente spalancata. Fece cenno a Scrooge di avvicinarsi, e lui lo fece.

  Quando furono alla distanza di due passi, il Fantasma di Marley sollevò la mano, facendogli segno di non procedere oltre. Scrooge si fermò.

  Ma più che per obbedienza, lo fece per la sorpresa e per lo spavento, perché al sollevarsi della mano, avvertì dei rumori confusi nell’aria; suoni incoerenti di lamentazione e di rimpianto; gemiti inesprimibili di dolore e di rimorso. Lo spettro, dopo averli ascoltati per un istante, si unì a quella triste litania; per poi scomparire fluttuante nella desolata, buia oscurità.

  Scrooge lo seguì con lo sguardo dalla finestra, preso da una una disperata curiosità. Guardò fuori.

  L’aria brulicava di spettri, che vagavano gemendo da una parte all’altra in un moto senza posa. Ciascuno di loro reggeva una catena come quella di Marley; alcuni di loro (forse dei politici corrotti) erano legati l'uno all'altro; nessuno in ogni caso era sprovvisto di una qualche catena. Molti di loro erano stati personalmente conosciuti da Scrooge in vita. Era stato quasi in confidenza con un vecchio fantasma che portava un panciotto bianco, con una gigantesca cassaforte di ferro legata alla caviglia, che ora piangeva pietosamente perché non aveva modo di aiutare una povera donna con un bambino che vedeva sotto di sé, seduta sui gradini di un portone. La loro sofferenza scaturiva dal palese tentativo di intervenire a fin di bene nelle faccende umane, pur avendo perso per sempre la facoltà di farlo.

  Se queste creature si fossero dissolte nella nebbia, o se la nebbia le avesse inghiottite nelle sue spire, non avrebbe saputo dire. Esse e le loro voci spettrali svanirono all'unisono, e la notte ritornò a essere la medesima notte di quando era diretto a casa.

  Scrooge chiuse la finestra ed esaminò la porta dalla quale era entrato il Fantasma. Era chiusa a doppia mandata, così come l’aveva chiusa egli stesso, e i chiavistelli non erano stati spostati. Stava per accennare un “Sciocchezze!” ma non gli riuscì di andare oltre la prima sillaba. E trovandosi - vuoi per le emozioni che aveva vissuto, vuoi per le fatiche del giorno, o per quell’assaggio di Mondo Invisibile, o per l’oscura conversazione intrattenuta col Fantasma, o per l’ora ormai tarda - nell’estrema necessità di riposarsi, se ne andò diritto a letto, senza svestirsi, e si addormentò all'istante.

giovedì 24 ottobre 2024

Seconda Strofa: Il primo dei Tre Spiriti


  

Quando Scrooge si svegliò faceva ancora così buio che sbirciando fuori dal letto riuscì a malapena a distinguere il vetro trasparente della finestra dalle pareti in penombra della stanza. Stava scrutando attentamente l’oscurità con i suoi occhi da furetto, quando la campana di una chiesa vicina batté i quattro quarti. Si mise quindi a contare i rintocchi per capire che ora fosse.


  Con sua grande sorpresa, la pesante campana passò da sei a sette rintocchi, e poi da sette a otto, e così via, fino a dodici, e poi si fermò. Mezzanotte! Si era messo a letto alle due passate. Il campanile doveva essersi sbagliato. Un ghiacciolo doveva essergli finito negli ingranaggi! Mezzanotte!


  Premette il pulsante del suo orologio a ripetizione per correggere l’incongruenza di quell’assurda campana. Il suo rapido e lieve ticchettio batté le dodici, e si arrestò. [la ripetizione minuti è un meccanismo degli orologi a ricarica che permette la ripetizione sonora dell’orario alla pressione di un pulsante].


  “Non è possibile,” disse Scrooge, “che abbia dormito un giorno intero fino alla mezzanotte del giorno dopo, o che e il sole si sia buscato un raffreddore e che adesso sia mezzogiorno!”


  L’idea non era molto allettante. Sgattaiolò fuori dal letto e si avvicinò a tentoni alla finestra, strofinò via il ghiaccio dal vetro con la manica della vestaglia per cercare di vedere qualcosa, ma anche così non gli riuscì di scorgere un granché. Tutto quel che gli riuscì di vedere fu che la nebbia era ancora fitta e faceva un gran freddo, anche in strada non si udiva il solito scalpiccio della gente che se ne andava avanti e indietro sui marciapiedi, come se la notte avesse inghiottito la luce diurna e avesse preso definitivamente possesso del mondo. Appurare che il mondo non era scomparso gli sarebbe stato di gran sollievo, poiché se non vi fossero stati più giorni da contare il “pagherò al sig. Ebenezer Scrooge o al suo legale rappresentante a tre giorni dalla presentazione di questa” ecc. ecc., sarebbe diventato nient’altro che una garanzia d’America. [sarcastico modo di dire per “carta straccia”, con riferimento alla solvibilità degli Stati Uniti d’America nell’epoca vittoriana, i quali avevano contratto debiti con fondi esteri per la costruzione del paese per poi non riuscire a sanarli in seguito alla crisi economica del 1837].
  Scrooge se ne tornò nuovamente a letto mettendosi a rimuginare, ci pensò e ripensò sopra, lambiccandosi il cervello, ma senza cavarne un ragno dal buco. Anzi, più ci pensava e più non ne veniva a capo; e tanto più si sforzava di non pensarci, tanto più vi ritornava a pensare. Il Fantasma di Marley lo aveva molto turbato. Ogni volta che si diceva, tra sé e sé, dopo una lunga e attenta riflessione, che aveva solamente sognato, la sua mente di nuovo scattava come una molla e ritornava al punto di partenza per ritrovarsi di fronte al medesimo problema: “Era stato o non era stato un sogno?”


  Scrooge ristette così per un po’ finché l’orologio ebbe battuto altri tre quarti, poi, all’improvviso, si ricordò che lo Spettro lo aveva avvertito che avrebbe ricevuto una visita al rintocco dell’una. Decise di rimanere sveglio ad aspettare; e considerando che avrebbe avuto più possibilità di trovarsi al creatore che di prender sonno, quella fu forse la decisione più saggia che avesse mai potuto prendere.


  L’ultimo quarto durò così a lungo che più di una volta gli sembrò di essersi appisolato e di aver passato l’ora. Alla fine un rintocco gli risuonò nelle orecchie.


  “Ding, dong!”


  “Mezzanotte e un quarto,” disse Scrooge, contando.


  “Ding, dong!”


  “Mezzanotte e mezza,” disse Scrooge.


  “Ding, dong!”


  “L’una meno un quarto,” disse Scrooge.


  “Ding, dong!”


  “L’una in punto,” disse Scrooge trionfante, “nient'altro!”


  Aveva parlato troppo presto, quando l’orologio non aveva ancora finito di battere, cosa che accadde subito dopo con un ultimo profondo, cupo e tetro rintocco. Nello stesso istante una luce si accese come un lampo nella stanza, e le cortine del letto vennero scostate.


  Le cortine del letto vennero scostate, lo giuro, da una mano. Non quelle ai piedi del letto, né quelle alle sue spalle, ma quelle che si trovavano proprio davanti al suo naso. Le cortine del letto vennero scostate, e Scrooge, tirandosi su per metà, si ritrovò faccia a faccia con l’ultraterreno visitatore che le aveva scostate: così vicini come lo siamo io e voi, idealmente, gomito a gomito.
  Era una strana figura, simile a un fanciullo, tuttavia non proprio un fanciullo, quanto piuttosto un vecchio, ma visto attraverso qualche misterioso filtro che lo rimpiccioliva e lo riduceva alle proporzioni di un bambino. I suoi capelli, che gli ricadevano sul collo e dietro la schiena, erano bianchi per via dell’età; eppure il suo volto era privo di rughe e la pelle era fresca come una rosa. Le braccia erano lunghe e muscolose, come le mani, come se fossero dotate di una forza sovrumana. Gambe e piedi erano delicati, nudi, così come le braccia. Indossava una tunica di un bianco immacolato; e stretta attorno alla vita aveva una lucente cintura, che brillava di una luce luminosissima. Teneva in una mano un ramo fresco di agrifoglio; e in aperto contrasto con quell’immagine invernale, aveva l’abito decorato di fiorellini estivi. Ma la cosa più singolare di tutte era che dalla sommità della sua testa fuoriusciva un'abbagliante fontana di luce che illuminava ogni cosa nella stanza; ed era certamente per questo motivo che sotto il braccio reggeva un berretto a mo’ di spegnitoio, da utilizzare, all'occorrenza, in caso che tutta quella luce gli fosse venuta a noia.


  Ciononostante, quando Scrooge lo ebbe guardato più attentamente, notò che quella non era ancora la sua caratteristica più strana. Così come la sua cintura brillava e luccicava ora in un punto ora in un altro, e dove vi era luce un attimo dopo tornava il buio, così l’intera figura fluttuava in certe sue mutazioni: ora aveva un solo braccio, ora una sola gamba, ora ne aveva venti, ora un paio di gambe senza testa, ora una testa senza corpo: e i contorni di quelle dissolventi parti sbiadivano indistinguibili nella notte più scura. Poi, nel bel mezzo di questo fenomeno, la figura tornava improvvisamente se stessa, chiara e distinta come prima.


  “Siete voi, signore, lo Spirito di cui la visita mi era stata annunciata?” chiese Scrooge.


  “Sono io!”


  La voce era soave ma bassa, come se provenisse da una grandissima distanza.


  “Chi siete, e che cosa siete?” domandò Scrooge.


  “Sono lo Spettro del Natale Passato.”


  “Passato da molto tempo?” lo incalzò Scrooge, osservando la sua minuscola statura.


  “No. Del tuo passato.”


  Forse Scrooge non avrebbe saputo spiegarlo meglio a chi glielo avesse chiesto, ma provava una gran desiderio di vedere lo Spirito mettersi il berretto, sicché lo supplicò di farlo.


  “Come?” esclamò lo Spettro, “vorresti già spegnere con le tue manacce mondane la luce che io ovunque diffondo? Non ti basta di aver contribuito a creare con le tue meschine passioni questo berretto, e di avermi costretto a tenermelo bel calato sulla testa per tutti questi anni?”


  Scrooge negò riguardosamente ogni intenzione di offendere, e ogni intenzionale tentativo di “incappucciamento”. Si fece dunque coraggio e gli chiese quale fosse il motivo della sua visita.


  “La tua salute!” disse lo Spettro.


  Scrooge si dichiarò molto obbligato, ma non poté fare a meno di pensare che una notte di riposo ininterrotto forse sarebbe stata più utile alla causa. Lo spirito dovette leggergli nel pensiero, perché subito replicò:


  “E allora la tua salvezza! Guarda!”


  Mentre parlava allungò la sua possente mano e gli afferrò delicatamente il braccio.


  “Alzati! E seguimi!”


  Sarebbe stato pressoché inutile per Scrooge far presente che le condizioni atmosferiche esterne e l’ora non erano fra le più indicate per una passeggiatina; tantopiù che il suo letto era caldo e che la temperatura, là fuori, era ben al di sotto dello zero; che lui era vestito leggero, in pantofole, con vestaglia e berretto da notte; e che di solito era sempre raffreddato. A quella presa, benché femminile nella sua delicatezza, sarebbe stato pressoché impossibile opporsi. Si alzò; ma vedendo che lo Spirito puntava diritto alla finestra, si aggrappò supplicante alla sua tunica.


  “Sono un essere umano,” protestò Scrooge, “sono suscettibile alle cadute.”


  “Basterà che la mia mano ti tocchi,” disse lo Spirito, ponendogliela sul cuore, “e sarai così leggero da volare!”


  Pronunciate queste parole, attraversarono la parete e si ritrovarono all'improvviso in un’aperta stradina di campagna, fiancheggiata su entrambi i lati da alcuni campi coltivati. L’intera città era scomparsa, non ne era rimasta la minima traccia. Buio e nebbia erano scomparsi con lei, e si trovavano ora in un limpida e fredda giornata invernale, con uno strato di neve che ricopriva ogni cosa.


  “Misericordia divina!” disse Scrooge, stringendo le mani e guardandosi intorno, “ma qui è dove sono cresciuto da bambino!”


  Lo spirito lo guardò con dolcezza. Il vecchio percepiva ancora la sua pressione gentile, benché lieve e di breve durata. Nell’aria aleggiavano mille fragranze che rievocavano mille pensieri e speranze, gioie e dolori, da molto, molto tempo dimenticati!


  “Ti tremano le labbra,” disse lo Spettro. “E cos’è quella cosa che hai sulla guancia?”


  Scrooge farfugliò, con un insolito balbettio nella voce, che si trattava solo di un foruncoletto, niente di che, e implorò lo Spettro di condurlo ovunque avesse voluto.


  “Ti ricordi la strada?” domandò lo Spirito.


  “Se me la ricordo!” esclamò Scrooge in preda all'eccitazione
, “Potrei percorrerla a occhi chiusi.”


  “Strano che te la sia dimenticata per tutto questo tempo!” osservò lo Spettro. “Andiamo.”


  E presero a camminare per quella strada. Scrooge ricordava ogni cancello, ogni albero, e ogni cassetta delle lettere, finché in lontananza apparve un villaggio, con il suo bel ponte, la sua chiesa e il suo bel fiume che si snodava sinuoso. Dei pony dal pelo arruffato gli vennero incontro trotterellando, con in groppa dei ragazzi che chiamavano a gran voce dei loro coetanei a bordo di alcuni calessi e carretti guidati da dei fattori. Erano tutti allegri e spensierati e gridavano felici lanciandosi richiami da una parte all’altra, tanto che l’intera campagna risuonava di quella melodia festosa e l’aria frizzante sembrava sorridere assieme a loro.


  “Sono solo ombre di cose che furono. Non hanno coscienza di noi,” disse lo Spirito.


  Gli allegri viaggiatori gli vennero incontro, e via via che Scrooge li riconosceva li indicava per nome. Perché era così felice di vederli? Perché ora gli brillavano quegli occhi solitamente gelidi e al vederli gli venne come un tuffo al cuore? Perché si sentì riempire di gioia quando li sentì augurarsi l’un l’altro “buon Natale!” mentre si separavano per i viottoli e le viuzze verso le proprie abitazioni? Che significava, per Scrooge, un “buon Natale”? Al diavolo il “buon Natale”! Che gli aveva mai portato di buono, a lui, il Natale?


  “La scuola non si è ancora svuotata,” disse lo Spettro
. “Dentro c'è ancora un bambino, dimenticato dagli amici.”


  Scrooge disse che lo sapeva bene. E sospirò.


  Lasciarono la strada principale prendendo per un viottolo ben conosciuto, e presto raggiunsero una costruzione di mattoni rossi, con una piccola cupola sul tetto sormontata da un segnavento, con una campanella al suo interno. Era un imponente edificio, però piuttosto decrepito: gli ampi saloni sembravano abbandonati, i muri erano umidi e ricoperti di muffe, le finestre rotte, le porte malandate. I polli scorrazzavano liberi nei pollai, le carrozze e le rimesse erano invase dalle erbacce. Neanche l’interno aveva conservato il suo antico splendore; entrando nel triste ingresso e guardando attraverso le porte spalancate, le stanze apparivano fredde e desolate. Nell’aria aleggiava un odore terroso, un freddo sterile e spoglio, che ricordava certi risvegli al lume di candela senza avere niente da mettere sotto i denti.


  Scrooge e lo Spettro attraversarono il lungo androne, fino ad arrivare a una porta in fondo all’edificio. Si spalancò davanti a loro rivelando una grande stanza, spoglia, malinconica, resa ancora più spoglia da alcune file di banchi e di scrivanie. Seduto su una di queste, un ragazzo solitario stava leggendo accanto a un piccolo fuocherello; e Scrooge si lasciò cadere su una panca emozionandosi alla vista del povero e dimenticato sé stesso che era stato un tempo.


  Il latente eco dell’edificio, lo squittio dei topi che si azzuffano dietro i pannelli delle pareti, la goccia mezza congelata che usciva dal rubinetto nel triste cortile sul retro, il sibilo dei rami spogli di un pioppo desolato, il cigolio della porta di un vuoto magazzino, il crepitio del fuoco, tutto penetrava nel cuore di Scrooge toccandone i sentimenti e dando libero sfogo alle sue lacrime.


  Lo Spirito gli sfiorò il braccio, e indicò la sua giovane figura che stava leggendo. A un tratto, un uomo vestito in abiti stranieri, meravigliosamente reale e di fiero aspetto con un’ascia infilata nella cintola, apparve fuori dalla finestra mentre reggeva le briglie di un asino carico di legname.


  “Ehi!, ma è Alì Babà!” esclamò Scrooge tutto contento. “Il caro vecchio e onesto Alì Babà! Sì, Sì, lo riconosco! Un Natale di tanto tempo fa, quando quel ragazzo venne lasciato qui tutto solo, lui apparve, sì, per la prima volta, esattamente così. Povero ragazzo! E Valentine,” disse Scrooge, “e il suo selvatico fratello, Orson; eccoli lì! E quell’altro, come si chiama, quello che fu lasciato addormentato in mutande davanti alle porte di Damasco, lo vedete? E lo stalliere del Sultano messo a testa in giù dai Genii; eccolo lì, tutto sottosopra! Ben gli sta. Sono proprio contento. Come pensava di sposare la Principessa?”


[riferimenti a varie letture per ragazzi dell'epoca, Alì Babà e i quaranta ladroni da “Le mille e una notte”; “Valentine and Orson”, romanzo medievale di origini francesi che narra le vicende di due fratellini abbandonati nella foresta; la storia di Nùr ad-Dìn e di Badr ad-Dìn Hassan sempre da “Le mille e una notte”]


Sentire Scrooge lasciarsi andare a quel modo, con quell’insolito tono di voce fra il pianto e il riso, eccitato come un bambino, sarebbe stato davvero un colpo per i suoi soci in affari giù in città.


  “Ecco il pappagallo!” esclamò Scrooge proseguendo nelle sue fantasticherie. “Quello verde con la coda gialla, con quella specie di lattuga che gli spunta sulla testa; ed eccolo lì,  ‘povero Robinson Crusoe’, così gli disse, quando era tornato dal suo giro intorno all’isola. ‘Povero Robin, dove eri finito, Robin?’. Pensava di stare sognando, ma era sveglio. Era il Pappagallo che parlava, capito? Ed ecco lì Venerdì, che cerca di mettersi in salvo attraversando il fiume! Dai, forza Venerdì, non ti fermare!”


  Poi, con un insolito mutamento d’umore, esclamò preso da pietà verso il sé stesso fanciullo: “Povero ragazzo!” e scoppiò di nuovo in lacrime.


  “Vorrei,” sussurrò Scrooge, infilandosi le mani nelle tasche e guardandosi attorno dopo esserci asciugato gli occhi nella manica, “vorrei… ma è troppo tardi, ormai.”


  “Che cosa?” chiese lo Spirito.


  “Niente,” disse Scrooge. “Niente. C’era un ragazzo, ieri sera, che aveva accennato un canto di Natale alla mia porta. Vorrei avergli dato qualcosa, tutto qui.”


  Lo Spettro sorrise meditando su quanto gli aveva appena detto, e accennando con la mano disse: “Vediamo un altro Natale.”


  A queste parole lo Scrooge ragazzo si fece più grande, e lo stanzone divenne un po’ più buio e sporco. I pannelli iniziarono a sgretolarsi, le finestre andarono in frantumi, pezzi di intonaco si staccarono dal soffitto scoprendo i listelli di legno; come tutto ciò fosse accaduto Scrooge non avrebbe saputo dire, ma sapeva che tutto era andato esattamente a quel modo e che ora si ritrovava di nuovo solo, solo come sempre, al contrario degli altri ragazzi che erano ritornati a casa a festeggiare il Natale.


  Ora non era intento a leggere ma se ne andava su e giù per la stanza in preda a una disperata agitazione. Scrooge guardò lo Spettro, e scuotendo il capo gettò un’ansiosa occhiata verso la porta.


  Quando si aprì, una bambina molto più piccola del ragazzo entrò correndo nella stanza, gli gettò le braccia al collo e lo ricoprì di baci, chiamandolo “fratellone.”


  “Sono venuta a prenderti, fratellone!” disse la bambina, battendo le sue piccole manine e piegandosi in due dalle risate. “Andiamo a casa, a casa, a casa!”


  “A casa, Fanny?” rispose il ragazzo.


  “Sì!” disse contentissima la bambina. “A casa, a casa per sempre. Papà adesso è diventato più buono e sembra di stare in paradiso! È stato così buono l’altra sera prima di andare a letto che non ho avuto più paura di chiedergli se potevi ritornare a casa; e lui mi ha detto di sì, che potevi ritornare; e allora ti sono venuta a prendere in carrozza. Diventerai un uomo, sai!” disse la bambina, spalancando gli occhioni, “e qui dentro non ci tornerai mai più; e passeremo insieme tutte le feste di Natale, le feste più belle del mondo!”


  “Ti sei fatta proprio una signorina, Fanny!” esclamò il ragazzo.


  La piccola batté le manine e si mise a ridere tutta contenta, cercando di toccargli la testa; ma era troppo piccina, così si sollevò sulla punta dei piedi per abbracciarlo. Poi, tutta presa dal suo infantile entusiasmo, cominciò a trascinarlo verso la porta; e lui, ben contento, si lasciò trascinare.


  Una voce terribile tuonò dall’ingresso: “Portate giù il baule del signorino Scrooge!”, e all’ingresso apparve il signor preside in persona, il quale lanciò al signorino Scrooge uno sguardo di di feroce disdegno, terrorizzandolo addirittura con una stretta di mano. Condusse quindi lui e la sorellina nella più decrepita e rabbrividente saletta che si fosse mai vista, dove persino mappamondi e mappe geografiche parevano ridotti a statue di cera per il freddo. Qui tirò fuori da uno stipetto una brocca di vinello stranamente leggero, e un pezzetto di torta stranamente pesante, e offrì quelle leccornie ai due giovani, mandando nel frattempo un magro inserviente a offrire un bicchierino di “non so cosa” al fattorino, il quale, pur ringraziando cortesemente il gentiluomo, rispose che ne avrebbe fatto volentieri a meno se si trattava dello stesso “non so cosa” dell’altra volta.


  Mentre il baule del signorino Scrooge veniva issato sul tetto della carrozza, i giovani si accomiatarono con sommo piacere dal signor preside, e montarono sulla vettura che si avviò allegramente giù per il sentiero, sollevando con le ruote schizzi di neve e di brina ghiacciata dal fogliame scuro dei sempreverdi.


  “È sempre stata una creaturina delicata, un soffio sarebbe bastato a portarla via,” disse lo Spettro,” Ma che gran cuore aveva!”


  “Sì,” esclamò Scrooge. “avete ragione, Spirito, non posso negarlo, Dio me ne voglia!”


  “Morì che era una donna,” disse lo Spettro, “Ed ebbe, credo, dei figli.”


  “Un figlio, sì”, disse Scrooge.


  “Già,” disse lo Spettro, “tuo nipote!”


  Scrooge parve a disagio a quel pensiero, e rispose sbrigativamente con un “Sì”.


  Nonostante si fossero appena lasciati alle spalle la scuola, si trovarono già immersi nelle vie trafficate di una città, dove passavano e ripassavano pedoni ridotti a ombre, e ombre di carri e carrozze si contendevano il passo nel tumulto generale di una grande metropoli. Dalle decorazioni dei negozi era abbastanza evidente che anche lì fosse Natale; ma era sera, e le vie erano illuminate.


  Lo Spettro si fermò davanti alla porta di un certo magazzino e domandò a Scrooge se per caso lo riconosceva.


  “Se lo riconosco!” disse Scrooge. “È proprio qui che ho iniziato come apprendista!”


  Entrarono. Alla vista di un vecchio signore con una parrucca, seduto dietro a una scrivania così sollevata da terra che se fosse stata cinque pollici più alta avrebbe certamente battuto la testa contro il soffitto, Scrooge urlò fuori di sé:


  “Ma è il vecchio Fezziwig! Dio lo benedica, Fezziwig in carne e ossa!”


  Il vecchio Fezziwig posò la penna e guardò l’orologio, che segnava le sette. Si fregò le mani; si sistemò l’enorme panciotto; si lasciò attraversare da capo a piedi da una fragorosa risata; e con bonario, grasso e gioviale vocione, chiamò:


  “Ehi voi, di là! Ebenezer, Dick!”


  Lo Scrooge di una volta, ormai fattosi giovanotto, entrò a gran velocità insieme al suo collega apprendista.


  “Ma è Dick Wilkins!” disse Scrooge allo Spettro. “Santo cielo, sì. Eccolo lì. Quanto mi ero affezionato a Dick. Povero Dick, caro, carissimo Dick!”


  “Ehilà, ragazzi!” disse Fezziwig. “Basta lavorare per stasera. È la Vigilia, Dick, è Natale Ebenezer! Chiudete le imposte,” disse il vecchio Fezziwig battendo forte le mani, “forza, scattare!”


  Da non credere come i due si misero subito all’opera! Si precipitarono in strada per chiudere le imposte - una, due, tre - fatto - quattro, cinque, sei - sbarrate e fermate - sette, otto, nove - e tornarono indietro prima ancora che fossero dodici, ansimanti come cavalli da corsa.


  “Ehi-ho!” gridò il vecchio Fezziwig, saltando giù dalla sua imponente scrivania con sorprendente agilità. “Sgomberate tutto, miei cari figlioli, facciamo un po’ di spazio! Ehi-ho, Dick! Forza, Ebenezer!”


  Sgomberare! Niente che non si potesse sgomberare sotto gli occhi del vecchio Fezziwig. In men che non si dica fu fatto. Tutte le cose che si potevano spostare furono spostate, cancellate in un baleno dalla faccia della terra; il pavimento spazzato e lavato, smoccolati i lumi, il carbone caricato nel camino, e il magazzino fu in un lampo trasformato in un’accogliente sala da ballo, calda, pulita, asciutta, luminosa, di quelle in cui vi piacerebbe farci una capatina in una lunga serata invernale.


  Arrivò un suonatore di violino con i suoi spartiti, si arrampicò sulla scrivania e ne fece un podio per orchestra, accordando il suo strumento con cinquanta mal di pancia. Arrivò la signora Fezziwig, tutta allegra e grassottella. Arrivarono le tre signorine Fezziwig, adorabili e raggianti. Arrivarono i sei giovanotti a cui avevano spezzato il cuore. Arrivarono tutti i ragazzi e le ragazze della casa. Ed ecco la domestica col cugino panettiere. Ecco la cuoca col lattaio, miglior amico del fratello. Poi il ragazzo del magazzino di fronte, sospettato di non ricevere granché da mangiare dal suo padrone; imboscato dietro la ragazzina della bottega accanto, a cui invece la padrona aveva di certo tirato le orecchie. Arrivarono tutti, uno dopo l’altro; chi timido, chi spavaldo, chi elegante, chi impacciato, chi spingendo e chi tirando; insomma, arrivarono proprio tutti, in un modo o nell’altro. E tutti insieme si gettarono nella mischia, venti coppie alla volta, mani incrociate, metà davanti e metà di dietro, e poi giù, al centro della sala, e di nuovo su, ruotando e piroettando allegramente insieme; la vecchia coppia di testa girando immancabilmente nel punto sbagliato; la coppia che ne prendeva il posto, giunta allo stesso punto, ricominciando tutte le volte da capo; tutte in ultimo diventando coppie di testa, e nessuna di rincalzo. Fu allora che il vecchio Fezziwig batté le mani per interrompere le danze, esclamando: “Ben fatto!”, e il suonatore tuffò il suo faccione rosso in un boccale di birra scura approntato alla bisogna. Ma non volendosi fermare, riattaccò prontamente riemergendo dal boccale, anche se i ballerini non erano ancora pronti, come se il suonatore di prima fosse stato portato via in barella, e lui fosse quello nuovo deciso a soppiantarlo, fino a stramazzare.


  Vi furono altri balli, e poi giochi e penitenze, e altri balli ancora, e poi torte, vin caldo, un gran pezzo di arrosto freddo e un altro bel pezzo di bollito rifreddo, e dolcetti ripieni e birra in gran quantità. Ma il culmine della festa fu toccato dopo l’arrosto e dopo il bollito, quando il suonatore (uno che sapeva davvero il fatto suo!) attaccò “Sir Roger de Coverley” [antica ballata popolare scozzese]. Allora il vecchio Fezziwig si fece avanti per concedersi un ballo con la sua signora. Coppia di testa, per giunta, in un pezzo piuttosto impegnativo, con ventitré o ventiquattro coppie da condurre dietro di loro, gente con cui c’era poco da scherzare, gente che avrebbe tanto voluto ballare, ma che non aveva la benché minima idea di come mettere i piedi.
  Ma anche se fossero state il doppio - o addirittura quattro volte tanto - il vecchio Fezziwig si sarebbe dimostrato all’altezza, e così la signora Fezziwig. Quanto a lei, oh, era davvero la sua degna compagna, e se questo vi par complimento da poco, suggeritemene voi uno migliore e io glielo riporterò. I polpacci di Fezziwig rifulgevano di una propria luce, come due lune risplendevano a ogni passo. Le sue gambe si muovevano a straordinaria velocità, impossibile prevedere il passo successivo. E quando il vecchio Fezziwig e la signora Fezziwig ebbero eseguito tutte le figure - avanzata e ritirata, mani alla dama, inchino e riverenza, giravolta, infilata, ritorno alla posizione di partenza -, Fezziwig “sforbiciò” così sapientemente che parve strizzar l'occhio con le gambe, per poi ritornare dritto senza batter ciglio.


  Al rintocco delle undici, il ballo terminò. Il signor e la signora Fezziwig presero posizione ai due lati dell’ingresso e strinsero la mano a tutti i partecipanti, augurando a ognuno, maschi e femmine che fossero, un Buon Natale. Quando tutti furono usciti, ad eccezione dei due apprendisti, si scambiarono i convenevoli fra di loro; e così si spensero a poco a poco gli ultimi echi della festa, e i due giovani furono lasciati ai loro letti che si trovavano sotto un bancone nel retrobottega.


  Per tutto il tempo della festa Scrooge fu quasi fuori di sé. Cuore e anima si erano completamente immedesimati nel suo giovane sé stesso. Riconosceva ogni cosa, tutto ricordava, godendosi eccitatissimo ogni singolo istante della festa. Fu solo in quel momento, dopo che Dick e il suo giovane sé stesso si voltarono dall’altra parte, che si rammentò della presenza dello Spettro e si accorse che il suo sguardo si era fissato su di lui, e che la fontana di luce che gli scaturiva dalla testa ardeva ora brillantissima.


  “Basta così poco,” disse lo Spettro, “per far sentire questi sciocchi così felici.”


  “Poco!” gli fece eco Scrooge.


  Lo spirito gli suggerì di prestare ascolto a quello che si stavano dicendo i due apprendisti, i quali si stavano spendendo in grandi lodi per i Fezziwig, e disse:


  “Perché, non è forse così? Non ha speso che poche sterline del vostro denaro terreno: forse in tutto tre o quattro. È abbastanza da meritare tutte queste lodi?”


  “Non è per questo,” disse Scrooge, punto sul vivo da quel commento, rivolgendosi inconsciamente più al suo giovane sé stesso che a quello attuale. “Non è per questo, Spirito. Lui con un solo sguardo, con una sola parola potrebbe renderci più lieti o più tristi; rendere il nostro lavoro più lieve o più gravoso, cose, se vogliamo, impercettibili e sottili, impossibili da tradurre in numeri: e allora? La felicità che regala non ha prezzo.”


Si sentì addosso lo sguardo dello Spirito e smise di parlare.


  “Che c’è?”


  “Niente,” disse Scrooge.


  “Io invece penso che qualcosa ci sia,” insis
tette lo Spirito.


  “No,” disse Scrooge,”No. È che adesso mi piacerebbe proprio dire due o tre paroline al mio impiegato! Solo questo.”


  Mentre lo diceva, il suo giovane sé stesso spense le lampade e Scrooge e lo Spettro si ritrovarono di nuovo insieme all’aria aperta.


  “Il mio tempo qui sta per scadere,” osservò lo Spirito. “Presto!”


  L’esclamazione non era rivolta a Scrooge, né a nessun altro che potesse vedere, ma produsse un effetto immediato. Fu così che Scrooge rivide un’altra volta sé
stesso. Ora era più adulto; un uomo nel pieno degli anni. Il suo volto non aveva ancora l’asprezza e la durezza degli anni futuri; ma cominciava già a mostrare i segni dell'irrequietezza e dell’avidità. I suoi occhi febbrili non trovavano pace, rivelando il punto esatto in cui quei malanni avevano attecchito e dove sarebbe caduta l’ombra della mala pianta che stava crescendo dentro di lui.


  Non era solo, ma sedeva accanto a una graziosa ragazza vestita a lutto, i suoi occhi erano pieni di lacrime che brillavano alla luce dello Spirito dei Natali Passati.


  “Non importa,” disse con un filo di voce. “Di certo a voi importa ancora meno. Un'altra ormai ha preso il mio posto, e se in futuro vi darà tutto il bene che avrei voluto darvi io, non c’è motivo di preoccuparsi.”


  “E chi sarebbe costei che vi ha rimpiazzato?”


  “Una dea d'oro.”


  “Ecco la giustizia del mondo!” disse lui. “Siete povero e vi accoppano, tentate di arricchirvi e avete addosso la condanna dell'intero genere umano!”


  “Voi temete troppo l'opinione della gente,” replicò lei con dolcezza. “Avete sacrificato tutte le vostre più grandi speranze per sottrarvi al sordido disprezzo del mondo. Ho visto cadere una dopo l’altra le vostre più nobili aspirazioni, finché la passione suprema, la brama di Guadagno, vi ha completamente divorato. Non è forse così?”


  “E con ciò?” ribatté lui. “Anche se fossi diventato più accorto, più giudizioso, dove sarebbe il problema? Io nei vostri confronti non sono mutato.”


  Lei scosse la testa.

    
  “Lo sono?”


  “La nostra promessa, ormai, non è più valida. Ce la scambiammo quando entrambi avevamo accettato di essere poveri, finché un giorno, Dio piacendo, saremmo riusciti a stare un po’ meglio grazie ai nostri umili sforzi. Voi siete mutato. Allora eravate un uomo diverso.”


  “Allora ero solo un ragazzo,” ribatté lui spazientito.


  “Lo vedete? La vostra stessa coscienza vi conferma che allora non eravate quel che siete ora,” ribatté lei. “Io lo sono ancora. Quel che ci prometteva felicità quando eravamo un cuore solo, oggi che ne abbiamo due ci dà solo sofferenze. Non sto qui a spiegarvi quanto spesso ci ho pensato, ma vi basti sapere che vi ho pensato, ed è per questo che ora vi sciolgo da quella promessa.”


  “Vi ho forse mai chiesto di scioglierla?”


  “A parole? No. Mai.”


  “E come, allora?”


  “Mutamento il vostro carattere, le vostre abitudini, con un diverso modo di intendere la vita, in tutto ciò che vi faceva apprezzare il mio amore per voi,” disse la ragazza, guardandolo dolcemente ma con fermezza, “ditemi, ora provereste lo stesso a conquistarmi? Ahimè, no!”


  Lui parve suo malgrado confermare la giustezza della sua ipotesi. Tuttavia, con un ultimo sforzo, disse: “Questo lo pensate voi.”


  “Sarei ben felice di pensare il contrario,” rispose lei. “Volesse il Cielo che fosse così! Quando si arriva a comprendere una verità come questa, essa è ahimè ferma e irremovibile. Ma se voi foste libero oggi, ieri, domani, potrei mai pensare che scegliereste una ragazza senza dote - voi, che nei momenti di maggiore intimità con lei valutate tutto secondo le possibilità di guadagno? O se mai, tradendo per un solo istante i vostri stessi princìpi, acconsentiste comunque a sposarla, non vi sentireste poi subito dopo tormentato dal pentimento e dal rimorso? Io credo di sì, e vi rendo la libertà, con tutto il mio cuore, in nome di tutto l’amore che provai per colui che eravate un tempo.”


  Stava per ribattere qualcosa, ma lei, voltandosi, riprese:


  “Forse, ricordando tutto ciò che vi è stato fra di noi, me lo fa quasi sperare, ne soffrirete. Poco, però, giusto un momento, e poi liquiderete il ricordo con sollievo, come al risveglio da un sogno improduttivo dal quale vi sarete fortunatamente ridestato. Che voi possiate essere felice nella vita che vi siete scelto!”


  Lo lasciò, e i due si separarono.


  “Spirito!” disse Scrooge, “Non mostratemi altro! Riportatemi a casa, vi prego, perché mi tormentate così?”


  “Ancora un’ultima ombra!” esclamò lo Spettro.


  “No, no, basta, per carità!”, urlò Scrooge. “Non voglio vederla!”


  Ma lo Spettro, inesorabile, lo afferrò forte per le braccia costringendolo a fissare di nuovo lo sguardo.


  La scena era mutata, il luogo era cambiato: una stanza, non molto grande né particolarmente bella, tuttavia dotata di ogni comodità. Presso il fuoco invernale sedeva una bellissima fanciulla, così somigliante a quella precedente che Scrooge pensò che si trattasse della stessa persona, finché la vide: ora lei era un’avvenente signora, seduta di fronte alla figlia. Si udiva nella stanza un gran baccano, poiché vi erano presenti più bambini di quanti Scrooge, nella sua confusione, potesse contarne; a differenza di quel famoso gregge citato nella celebre poesia, non erano quaranta bambini che se ne stavano buoni buoni come se fossero uno solo, bensì l’esatto contrario, cioè ciascuno di essi ne valeva quaranta [la poesia è di William Wordsworth, “Written in March”]. Il risultato era un formidabile pandemonio; ma nessuno sembrava preoccuparsene; anzi, madre e figlia ridevano di gusto, addirittura divertite; e quest’ultima, appena rituffatasi nei giochi, veniva subitamente assaltata da quei piccoli e spietati brigantelli. Oh, cosa non avrei dato per essere uno di loro! Benché mai e poi mai avrei potuto essere tanto crudele! Per niente al mondo avrei potuto tirarle le trecce e scioglierle i capelli; e non mi sarei mai arrischiato a strapparle la preziosa scarpina, Dio m’è testimone, nemmeno per scampare alla morte! E quanto a misurarle il vitino, come fecero quegli impertinenti monelli, mai e poi mai avrei potuto osare tanto: mi sarei aspettato per punizione di rimaner col braccio ricurvo per tutta la vita. Eppure, lo confesso, avrei tanto voluto sfiorarle le labbra, porle qualche domanda perché le tenesse dischiuse, osservare le ciglia dei suoi occhi abbassati senza mai farla arrossire; scioglierle le onde dei capelli di cui una sola ciocca sarebbe stata per me un inestimabile tesoro: in breve, avrei voluto godere delle licenze solitamente concesse ai fanciulli restando però abbastanza uomo da apprezzarne il valore.


  Ma a quel punto si sentì bussare alla porta, e ne seguì un tale trambusto che la poverina, sorridente e con il vestitino tutto in disordine, proprio nel bel mezzo di quella baraonda, fece giusto in tempo ad accogliere il padre, che rincasava proprio in quel momento accompagnato da un uomo carico di giocattoli e regali di Natale. Quali urla e che lotte nell’assalto a quell’inerme e incolpevole facchino! Come si arrampicavano sopra di lui con le sedie sistemate a mo’ di scale, per poi tuffarsi nelle sue tasche, depredarlo dei pacchetti di carta marroncina, afferrarlo per la cravatta, appendersi al suo collo, tirandogli pugni nella schiena e calci alle gambe in segno di incontenibile affetto! Le grida di gioia e di stupore all’apertura di ogni pacchetto! Il terribile annuncio che il bambino era stato colto in flagrante nell’atto di ingoiare la padella della bambolina, e il sospetto più che certo che avesse inghiottito anche un finto tacchino incollato a un piattino di legno! E l’immenso sollievo nello scoprire che era stato tutto un falso allarme! Quale gioia, quale gratitudine, che felicità! Da non potersi descrivere. Vi basti sapere che un po’ alla volta quei bambini, seguiti da tutto il loro pandemonio, uscirono dal salottino un gradino alla volta, e raggiunto
l’ultimo piano, andarono a letto mettendosi a dormire.


  Scrooge fu poi colpito da una scena, quando il padrone di casa, con la figlia appoggiata affettuosamente a lui, si sedette insieme alla madre accanto al focolare; e quando gli venne da pensare che un’altra creaturina, altrettanto graziosa e carica di promesse, avrebbe potuto chiamarlo papà ed essere una primavera nel triste inverno della sua vita, gli si appannarono definitivamente gli occhi.


  “Bella,” disse il marito rivolgendosi sorridente alla moglie, “questo pomeriggio ho incontrato un tuo vecchio amico.”


  “Chi?”


  “Indovina!”


  “Come vuoi che faccia? Mah, non saprei…” poi aggiunse tutta d’un fiato, ricambiando la risata del marito. “Il signor Scrooge.”


  “Proprio lui, il signor Scrooge. Sono passato davanti al suo ufficio; e siccome le finestre erano aperte e la candela era ancora accesa, non ho potuto fare a meno di notarlo. Ho sentito dire che il suo socio è in fin di vita, e lui se ne stava lì tutto solo. Non gli è rimasto più nessuno al mondo, credo.”


  “Spirito!” disse Scrooge con la voce rotta, “Portatemi via di qui.”


  “Ti ho avvertito che queste sono le ombre delle cose passate,” disse lo Spettro. “Se ora sono quelle che sono, non puoi farmene una colpa!”


  “Toglietemi di qui!” esclamò Scrooge. “Non resisto più!”


  Si voltò verso lo Spettro, e vedendo che lo stava fissando con una strana espressione che conteneva i frammenti di tutti i volti che gli erano stati mostrati in precedenza, si avventò su di lui.


  “Lasciatemi in pace! Riportatemi a casa! Smettetela di tormentarmi!”


  Nella lotta, se lotta si può chiamare quella in cui lo Spettro, senza opporre un’apparente resistenza, rimaneva impassibile di fronte agli assalti dell’avversario, Scrooge notò che la sua fontana di luce ardeva sempre più brillante, e sospettando che quella fosse la causa di ogni suo problema, afferrò il berretto-spegnitoio e con mossa repentina glielo calò sulla testa.


  Lo Spirito collassò, scomparendo sotto lo spegnitoio; ma sebbene Scrooge premesse con tutte le sue forze, non gli riusciva ugualmente di spegnere la luce che continuava a uscire da sotto il berretto in un flusso ininterrotto che si spandeva sopra il pavimento.


  Si sentì improvvisamente stanco, come sopraffatto da un’irresistibile sonnolenza; e si accorse che era ritornato in camera sua. Diede un ultimo strattone al berretto ed ebbe appena il tempo di dirigersi barcollante verso il letto che sprofondò in un sonno profondissimo.