Quando Scrooge si svegliò faceva ancora così buio che sbirciando fuori dal letto riuscì a malapena a distinguere il vetro trasparente della finestra dalle pareti in penombra della stanza. Stava scrutando attentamente l’oscurità con i suoi occhi da furetto, quando la campana di una chiesa vicina batté i quattro quarti. Si mise quindi a contare i rintocchi per capire che ora fosse.
Con sua grande sorpresa, la pesante campana passò da sei a sette rintocchi, e poi da sette a otto, e così via, fino a dodici, e poi si fermò. Mezzanotte! Si era messo a letto alle due passate. Il campanile doveva essersi sbagliato. Un ghiacciolo doveva essergli finito negli ingranaggi! Mezzanotte!
Premette il pulsante del suo orologio a ripetizione per correggere l’incongruenza di quell’assurda campana. Il suo rapido e lieve ticchettio batté le dodici, e si arrestò. [la ripetizione minuti è un meccanismo degli orologi a ricarica che permette la ripetizione sonora dell’orario alla pressione di un pulsante].
“Non è possibile,” disse Scrooge, “che abbia dormito un giorno intero fino alla mezzanotte del giorno dopo, o che e il sole si sia buscato un raffreddore e che adesso sia mezzogiorno!”
L’idea non era molto allettante. Sgattaiolò fuori dal letto e si avvicinò a tentoni alla finestra, strofinò via il ghiaccio dal vetro con la manica della vestaglia per cercare di vedere qualcosa, ma anche così non gli riuscì di scorgere un granché. Tutto quel che gli riuscì di vedere fu che la nebbia era ancora fitta e faceva un gran freddo, anche in strada non si udiva il solito scalpiccio della gente che se ne andava avanti e indietro sui marciapiedi, come se la notte avesse inghiottito la luce diurna e avesse preso definitivamente possesso del mondo. Appurare che il mondo non era scomparso gli sarebbe stato di gran sollievo, poiché se non vi fossero stati più giorni da contare il “pagherò al sig. Ebenezer Scrooge o al suo legale rappresentante a tre giorni dalla presentazione di questa” ecc. ecc., sarebbe diventato nient’altro che una garanzia d’America. [sarcastico modo di dire per “carta straccia”, con riferimento alla solvibilità degli Stati Uniti d’America nell’epoca vittoriana, i quali avevano contratto debiti con fondi esteri per la costruzione del paese per poi non riuscire a sanarli in seguito alla crisi economica del 1837].
Scrooge se ne tornò nuovamente a letto mettendosi a rimuginare, ci pensò e ripensò sopra, lambiccandosi il cervello, ma senza cavarne un ragno dal buco. Anzi, più ci pensava e più non ne veniva a capo; e tanto più si sforzava di non pensarci, tanto più vi ritornava a pensare. Il Fantasma di Marley lo aveva molto turbato. Ogni volta che si diceva, tra sé e sé, dopo una lunga e attenta riflessione, che aveva solamente sognato, la sua mente di nuovo scattava come una molla e ritornava al punto di partenza per ritrovarsi di fronte al medesimo problema: “Era stato o non era stato un sogno?”
Scrooge ristette così per un po’ finché l’orologio ebbe battuto altri tre quarti, poi, all’improvviso, si ricordò che lo Spettro lo aveva avvertito che avrebbe ricevuto una visita al rintocco dell’una. Decise di rimanere sveglio ad aspettare; e considerando che avrebbe avuto più possibilità di trovarsi al creatore che di prender sonno, quella fu forse la decisione più saggia che avesse mai potuto prendere.
L’ultimo quarto durò così a lungo che più di una volta gli sembrò di essersi appisolato e di aver passato l’ora. Alla fine un rintocco gli risuonò nelle orecchie.
“Ding, dong!”
“Mezzanotte e un quarto,” disse Scrooge, contando.
“Ding, dong!”
“Mezzanotte e mezza,” disse Scrooge.
“Ding, dong!”
“L’una meno un quarto,” disse Scrooge.
“Ding, dong!”
“L’una in punto,” disse Scrooge trionfante, “nient'altro!”
Aveva parlato troppo presto, quando l’orologio non aveva ancora finito di battere, cosa che accadde subito dopo con un ultimo profondo, cupo e tetro rintocco. Nello stesso istante una luce si accese come un lampo nella stanza, e le cortine del letto vennero scostate.
Le cortine del letto vennero scostate, lo giuro, da una mano. Non quelle ai piedi del letto, né quelle alle sue spalle, ma quelle che si trovavano proprio davanti al suo naso. Le cortine del letto vennero scostate, e Scrooge, tirandosi su per metà, si ritrovò faccia a faccia con l’ultraterreno visitatore che le aveva scostate: così vicini come lo siamo io e voi, idealmente, gomito a gomito.
Era una strana figura, simile a un fanciullo, tuttavia non proprio un fanciullo, quanto piuttosto un vecchio, ma visto attraverso qualche misterioso filtro che lo rimpiccioliva e lo riduceva alle proporzioni di un bambino. I suoi capelli, che gli ricadevano sul collo e dietro la schiena, erano bianchi per via dell’età; eppure il suo volto era privo di rughe e la pelle era fresca come una rosa. Le braccia erano lunghe e muscolose, come le mani, come se fossero dotate di una forza sovrumana. Gambe e piedi erano delicati, nudi, così come le braccia. Indossava una tunica di un bianco immacolato; e stretta attorno alla vita aveva una lucente cintura, che brillava di una luce luminosissima. Teneva in una mano un ramo fresco di agrifoglio; e in aperto contrasto con quell’immagine invernale, aveva l’abito decorato di fiorellini estivi. Ma la cosa più singolare di tutte era che dalla sommità della sua testa fuoriusciva un'abbagliante fontana di luce che illuminava ogni cosa nella stanza; ed era certamente per questo motivo che sotto il braccio reggeva un berretto a mo’ di spegnitoio, da utilizzare, all'occorrenza, in caso che tutta quella luce gli fosse venuta a noia.
Ciononostante, quando Scrooge lo ebbe guardato più attentamente, notò che quella non era ancora la sua caratteristica più strana. Così come la sua cintura brillava e luccicava ora in un punto ora in un altro, e dove vi era luce un attimo dopo tornava il buio, così l’intera figura fluttuava in certe sue mutazioni: ora aveva un solo braccio, ora una sola gamba, ora ne aveva venti, ora un paio di gambe senza testa, ora una testa senza corpo: e i contorni di quelle dissolventi parti sbiadivano indistinguibili nella notte più scura. Poi, nel bel mezzo di questo fenomeno, la figura tornava improvvisamente se stessa, chiara e distinta come prima.
“Siete voi, signore, lo Spirito di cui la visita mi era stata annunciata?” chiese Scrooge.
“Sono io!”
La voce era soave ma bassa, come se provenisse da una grandissima distanza.
“Chi siete, e che cosa siete?” domandò Scrooge.
“Sono lo Spettro del Natale Passato.”
“Passato da molto tempo?” lo incalzò Scrooge, osservando la sua minuscola statura.
“No. Del tuo passato.”
Forse Scrooge non avrebbe saputo spiegarlo meglio a chi glielo avesse chiesto, ma provava una gran desiderio di vedere lo Spirito mettersi il berretto, sicché lo supplicò di farlo.
“Come?” esclamò lo Spettro, “vorresti già spegnere con le tue manacce mondane la luce che io ovunque diffondo? Non ti basta di aver contribuito a creare con le tue meschine passioni questo berretto, e di avermi costretto a tenermelo bel calato sulla testa per tutti questi anni?”
Scrooge negò riguardosamente ogni intenzione di offendere, e ogni intenzionale tentativo di “incappucciamento”. Si fece dunque coraggio e gli chiese quale fosse il motivo della sua visita.
“La tua salute!” disse lo Spettro.
Scrooge si dichiarò molto obbligato, ma non poté fare a meno di pensare che una notte di riposo ininterrotto forse sarebbe stata più utile alla causa. Lo spirito dovette leggergli nel pensiero, perché subito replicò:
“E allora la tua salvezza! Guarda!”
Mentre parlava allungò la sua possente mano e gli afferrò delicatamente il braccio.
“Alzati! E seguimi!”
Sarebbe stato pressoché inutile per Scrooge far presente che le condizioni atmosferiche esterne e l’ora non erano fra le più indicate per una passeggiatina; tantopiù che il suo letto era caldo e che la temperatura, là fuori, era ben al di sotto dello zero; che lui era vestito leggero, in pantofole, con vestaglia e berretto da notte; e che di solito era sempre raffreddato. A quella presa, benché femminile nella sua delicatezza, sarebbe stato pressoché impossibile opporsi. Si alzò; ma vedendo che lo Spirito puntava diritto alla finestra, si aggrappò supplicante alla sua tunica.
“Sono un essere umano,” protestò Scrooge, “sono suscettibile alle cadute.”
“Basterà che la mia mano ti tocchi lì,” disse lo Spirito, ponendogliela sul cuore, “e sarai così leggero da volare!”
Pronunciate queste parole, attraversarono la parete e si ritrovarono all'improvviso in un’aperta stradina di campagna, fiancheggiata su entrambi i lati da alcuni campi coltivati. L’intera città era scomparsa, non ne era rimasta la minima traccia. Buio e nebbia erano scomparsi con lei, e si trovavano ora in un limpida e fredda giornata invernale, con uno strato di neve che ricopriva ogni cosa.
“Misericordia divina!” disse Scrooge, stringendo le mani e guardandosi intorno, “ma qui è dove sono cresciuto da bambino!”
Lo spirito lo guardò con dolcezza. Il vecchio percepiva ancora la sua pressione gentile, benché lieve e di breve durata. Nell’aria aleggiavano mille fragranze che rievocavano mille pensieri e speranze, gioie e dolori, da molto, molto tempo dimenticati!
“Ti tremano le labbra,” disse lo Spettro. “E cos’è quella cosa che hai sulla guancia?”
Scrooge farfugliò, con un insolito balbettio nella voce, che si trattava solo di un foruncoletto, niente di che, e implorò lo Spettro di condurlo ovunque avesse voluto.
“Ti ricordi la strada?” domandò lo Spirito.
“Se me la ricordo!” esclamò Scrooge in preda all'eccitazione, “Potrei percorrerla a occhi chiusi.”
“Strano che te la sia dimenticata per tutto questo tempo!” osservò lo Spettro. “Andiamo.”
E presero a camminare per quella strada. Scrooge ricordava ogni cancello, ogni albero, e ogni cassetta delle lettere, finché in lontananza apparve un villaggio, con il suo bel ponte, la sua chiesa e il suo bel fiume che si snodava sinuoso. Dei pony dal pelo arruffato gli vennero incontro trotterellando, con in groppa dei ragazzi che chiamavano a gran voce dei loro coetanei a bordo di alcuni calessi e carretti guidati da dei fattori. Erano tutti allegri e spensierati e gridavano felici lanciandosi richiami da una parte all’altra, tanto che l’intera campagna risuonava di quella melodia festosa e l’aria frizzante sembrava sorridere assieme a loro.
“Sono solo ombre di cose che furono. Non hanno coscienza di noi,” disse lo Spirito.
Gli allegri viaggiatori gli vennero incontro, e via via che Scrooge li riconosceva li indicava per nome. Perché era così felice di vederli? Perché ora gli brillavano quegli occhi solitamente gelidi e al vederli gli venne come un tuffo al cuore? Perché si sentì riempire di gioia quando li sentì augurarsi l’un l’altro “buon Natale!” mentre si separavano per i viottoli e le viuzze verso le proprie abitazioni? Che significava, per Scrooge, un “buon Natale”? Al diavolo il “buon Natale”! Che gli aveva mai portato di buono, a lui, il Natale?
“La scuola non si è ancora svuotata,” disse lo Spettro. “Dentro c'è ancora un bambino, dimenticato dagli amici.”
Scrooge disse che lo sapeva bene. E sospirò.
Lasciarono la strada principale prendendo per un viottolo ben conosciuto, e presto raggiunsero una costruzione di mattoni rossi, con una piccola cupola sul tetto sormontata da un segnavento, con una campanella al suo interno. Era un imponente edificio, però piuttosto decrepito: gli ampi saloni sembravano abbandonati, i muri erano umidi e ricoperti di muffe, le finestre rotte, le porte malandate. I polli scorrazzavano liberi nei pollai, le carrozze e le rimesse erano invase dalle erbacce. Neanche l’interno aveva conservato il suo antico splendore; entrando nel triste ingresso e guardando attraverso le porte spalancate, le stanze apparivano fredde e desolate. Nell’aria aleggiava un odore terroso, un freddo sterile e spoglio, che ricordava certi risvegli al lume di candela senza avere niente da mettere sotto i denti.
Scrooge e lo Spettro attraversarono il lungo androne, fino ad arrivare a una porta in fondo all’edificio. Si spalancò davanti a loro rivelando una grande stanza, spoglia, malinconica, resa ancora più spoglia da alcune file di banchi e di scrivanie. Seduto su una di queste, un ragazzo solitario stava leggendo accanto a un piccolo fuocherello; e Scrooge si lasciò cadere su una panca emozionandosi alla vista del povero e dimenticato sé stesso che era stato un tempo.
Il latente eco dell’edificio, lo squittio dei topi che si azzuffano dietro i pannelli delle pareti, la goccia mezza congelata che usciva dal rubinetto nel triste cortile sul retro, il sibilo dei rami spogli di un pioppo desolato, il cigolio della porta di un vuoto magazzino, il crepitio del fuoco, tutto penetrava nel cuore di Scrooge toccandone i sentimenti e dando libero sfogo alle sue lacrime.
Lo Spirito gli sfiorò il braccio, e indicò la sua giovane figura che stava leggendo. A un tratto, un uomo vestito in abiti stranieri, meravigliosamente reale e di fiero aspetto con un’ascia infilata nella cintola, apparve fuori dalla finestra mentre reggeva le briglie di un asino carico di legname.
“Ehi!, ma è Alì Babà!” esclamò Scrooge tutto contento. “Il caro vecchio e onesto Alì Babà! Sì, Sì, lo riconosco! Un Natale di tanto tempo fa, quando quel ragazzo venne lasciato qui tutto solo, lui apparve, sì, per la prima volta, esattamente così. Povero ragazzo! E Valentine,” disse Scrooge, “e il suo selvatico fratello, Orson; eccoli lì! E quell’altro, come si chiama, quello che fu lasciato addormentato in mutande davanti alle porte di Damasco, lo vedete? E lo stalliere del Sultano messo a testa in giù dai Genii; eccolo lì, tutto sottosopra! Ben gli sta. Sono proprio contento. Come pensava di sposare la Principessa?”
[riferimenti a varie letture per ragazzi dell'epoca, Alì Babà e i quaranta ladroni da “Le mille e una notte”; “Valentine and Orson”, romanzo medievale di origini francesi che narra le vicende di due fratellini abbandonati nella foresta; la storia di Nùr ad-Dìn e di Badr ad-Dìn Hassan sempre da “Le mille e una notte”]
Sentire Scrooge lasciarsi andare a quel modo, con quell’insolito tono di voce fra il pianto e il riso, eccitato come un bambino, sarebbe stato davvero un colpo per i suoi soci in affari giù in città.
“Ecco il pappagallo!” esclamò Scrooge proseguendo nelle sue fantasticherie. “Quello verde con la coda gialla, con quella specie di lattuga che gli spunta sulla testa; ed eccolo lì, ‘povero Robinson Crusoe’, così gli disse, quando era tornato dal suo giro intorno all’isola. ‘Povero Robin, dove eri finito, Robin?’. Pensava di stare sognando, ma era sveglio. Era il Pappagallo che parlava, capito? Ed ecco lì Venerdì, che cerca di mettersi in salvo attraversando il fiume! Dai, forza Venerdì, non ti fermare!”
Poi, con un insolito mutamento d’umore, esclamò preso da pietà verso il sé stesso fanciullo: “Povero ragazzo!” e scoppiò di nuovo in lacrime.
“Vorrei,” sussurrò Scrooge, infilandosi le mani nelle tasche e guardandosi attorno dopo esserci asciugato gli occhi nella manica, “vorrei… ma è troppo tardi, ormai.”
“Che cosa?” chiese lo Spirito.
“Niente,” disse Scrooge. “Niente. C’era un ragazzo, ieri sera, che aveva accennato un canto di Natale alla mia porta. Vorrei avergli dato qualcosa, tutto qui.”
Lo Spettro sorrise meditando su quanto gli aveva appena detto, e accennando con la mano disse: “Vediamo un altro Natale.”
A queste parole lo Scrooge ragazzo si fece più grande, e lo stanzone divenne un po’ più buio e sporco. I pannelli iniziarono a sgretolarsi, le finestre andarono in frantumi, pezzi di intonaco si staccarono dal soffitto scoprendo i listelli di legno; come tutto ciò fosse accaduto Scrooge non avrebbe saputo dire, ma sapeva che tutto era andato esattamente a quel modo e che ora si ritrovava di nuovo solo, solo come sempre, al contrario degli altri ragazzi che erano ritornati a casa a festeggiare il Natale.
Ora non era intento a leggere ma se ne andava su e giù per la stanza in preda a una disperata agitazione. Scrooge guardò lo Spettro, e scuotendo il capo gettò un’ansiosa occhiata verso la porta.
Quando si aprì, una bambina molto più piccola del ragazzo entrò correndo nella stanza, gli gettò le braccia al collo e lo ricoprì di baci, chiamandolo “fratellone.”
“Sono venuta a prenderti, fratellone!” disse la bambina, battendo le sue piccole manine e piegandosi in due dalle risate. “Andiamo a casa, a casa, a casa!”
“A casa, Fanny?” rispose il ragazzo.
“Sì!” disse contentissima la bambina. “A casa, a casa per sempre. Papà adesso è diventato più buono e sembra di stare in paradiso! È stato così buono l’altra sera prima di andare a letto che non ho avuto più paura di chiedergli se potevi ritornare a casa; e lui mi ha detto di sì, che potevi ritornare; e allora ti sono venuta a prendere in carrozza. Diventerai un uomo, sai!” disse la bambina, spalancando gli occhioni, “e qui dentro non ci tornerai mai più; e passeremo insieme tutte le feste di Natale, le feste più belle del mondo!”
“Ti sei fatta proprio una signorina, Fanny!” esclamò il ragazzo.
La piccola batté le manine e si mise a ridere tutta contenta, cercando di toccargli la testa; ma era troppo piccina, così si sollevò sulla punta dei piedi per abbracciarlo. Poi, tutta presa dal suo infantile entusiasmo, cominciò a trascinarlo verso la porta; e lui, ben contento, si lasciò trascinare.
Una voce terribile tuonò dall’ingresso: “Portate giù il baule del signorino Scrooge!”, e all’ingresso apparve il signor preside in persona, il quale lanciò al signorino Scrooge uno sguardo di di feroce disdegno, terrorizzandolo addirittura con una stretta di mano. Condusse quindi lui e la sorellina nella più decrepita e rabbrividente saletta che si fosse mai vista, dove persino mappamondi e mappe geografiche parevano ridotti a statue di cera per il freddo. Qui tirò fuori da uno stipetto una brocca di vinello stranamente leggero, e un pezzetto di torta stranamente pesante, e offrì quelle leccornie ai due giovani, mandando nel frattempo un magro inserviente a offrire un bicchierino di “non so cosa” al fattorino, il quale, pur ringraziando cortesemente il gentiluomo, rispose che ne avrebbe fatto volentieri a meno se si trattava dello stesso “non so cosa” dell’altra volta.
Mentre il baule del signorino Scrooge veniva issato sul tetto della carrozza, i giovani si accomiatarono con sommo piacere dal signor preside, e montarono sulla vettura che si avviò allegramente giù per il sentiero, sollevando con le ruote schizzi di neve e di brina ghiacciata dal fogliame scuro dei sempreverdi.
“È sempre stata una creaturina delicata, un soffio sarebbe bastato a portarla via,” disse lo Spettro,” Ma che gran cuore aveva!”
“Sì,” esclamò Scrooge. “avete ragione, Spirito, non posso negarlo, Dio me ne voglia!”
“Morì che era una donna,” disse lo Spettro, “Ed ebbe, credo, dei figli.”
“Un figlio, sì”, disse Scrooge.
“Già,” disse lo Spettro, “tuo nipote!”
Scrooge parve a disagio a quel pensiero, e rispose sbrigativamente con un “Sì”.
Nonostante si fossero appena lasciati alle spalle la scuola, si trovarono già immersi nelle vie trafficate di una città, dove passavano e ripassavano pedoni ridotti a ombre, e ombre di carri e carrozze si contendevano il passo nel tumulto generale di una grande metropoli. Dalle decorazioni dei negozi era abbastanza evidente che anche lì fosse Natale; ma era sera, e le vie erano illuminate.
Lo Spettro si fermò davanti alla porta di un certo magazzino e domandò a Scrooge se per caso lo riconosceva.
“Se lo riconosco!” disse Scrooge. “È proprio qui che ho iniziato come apprendista!”
Entrarono. Alla vista di un vecchio signore con una parrucca, seduto dietro a una scrivania così sollevata da terra che se fosse stata cinque pollici più alta avrebbe certamente battuto la testa contro il soffitto, Scrooge urlò fuori di sé:
“Ma è il vecchio Fezziwig! Dio lo benedica, Fezziwig in carne e ossa!”
Il vecchio Fezziwig posò la penna e guardò l’orologio, che segnava le sette. Si fregò le mani; si sistemò l’enorme panciotto; si lasciò attraversare da capo a piedi da una fragorosa risata; e con bonario, grasso e gioviale vocione, chiamò:
“Ehi voi, di là! Ebenezer, Dick!”
Lo Scrooge di una volta, ormai fattosi giovanotto, entrò a gran velocità insieme al suo collega apprendista.
“Ma è Dick Wilkins!” disse Scrooge allo Spettro. “Santo cielo, sì. Eccolo lì. Quanto mi ero affezionato a Dick. Povero Dick, caro, carissimo Dick!”
“Ehilà, ragazzi!” disse Fezziwig. “Basta lavorare per stasera. È la Vigilia, Dick, è Natale Ebenezer! Chiudete le imposte,” disse il vecchio Fezziwig battendo forte le mani, “forza, scattare!”
Da non credere come i due si misero subito all’opera! Si precipitarono in strada per chiudere le imposte - una, due, tre - fatto - quattro, cinque, sei - sbarrate e fermate - sette, otto, nove - e tornarono indietro prima ancora che fossero dodici, ansimanti come cavalli da corsa.
“Ehi-ho!” gridò il vecchio Fezziwig, saltando giù dalla sua imponente scrivania con sorprendente agilità. “Sgomberate tutto, miei cari figlioli, facciamo un po’ di spazio! Ehi-ho, Dick! Forza, Ebenezer!”
Sgomberare! Niente che non si potesse sgomberare sotto gli occhi del vecchio Fezziwig. In men che non si dica fu fatto. Tutte le cose che si potevano spostare furono spostate, cancellate in un baleno dalla faccia della terra; il pavimento spazzato e lavato, smoccolati i lumi, il carbone caricato nel camino, e il magazzino fu in un lampo trasformato in un’accogliente sala da ballo, calda, pulita, asciutta, luminosa, di quelle in cui vi piacerebbe farci una capatina in una lunga serata invernale.
Arrivò un suonatore di violino con i suoi spartiti, si arrampicò sulla scrivania e ne fece un podio per orchestra, accordando il suo strumento con cinquanta mal di pancia. Arrivò la signora Fezziwig, tutta allegra e grassottella. Arrivarono le tre signorine Fezziwig, adorabili e raggianti. Arrivarono i sei giovanotti a cui avevano spezzato il cuore. Arrivarono tutti i ragazzi e le ragazze della casa. Ed ecco la domestica col cugino panettiere. Ecco la cuoca col lattaio, miglior amico del fratello. Poi il ragazzo del magazzino di fronte, sospettato di non ricevere granché da mangiare dal suo padrone; imboscato dietro la ragazzina della bottega accanto, a cui invece la padrona aveva di certo tirato le orecchie. Arrivarono tutti, uno dopo l’altro; chi timido, chi spavaldo, chi elegante, chi impacciato, chi spingendo e chi tirando; insomma, arrivarono proprio tutti, in un modo o nell’altro. E tutti insieme si gettarono nella mischia, venti coppie alla volta, mani incrociate, metà davanti e metà di dietro, e poi giù, al centro della sala, e di nuovo su, ruotando e piroettando allegramente insieme; la vecchia coppia di testa girando immancabilmente nel punto sbagliato; la coppia che ne prendeva il posto, giunta allo stesso punto, ricominciando tutte le volte da capo; tutte in ultimo diventando coppie di testa, e nessuna di rincalzo. Fu allora che il vecchio Fezziwig batté le mani per interrompere le danze, esclamando: “Ben fatto!”, e il suonatore tuffò il suo faccione rosso in un boccale di birra scura approntato alla bisogna. Ma non volendosi fermare, riattaccò prontamente riemergendo dal boccale, anche se i ballerini non erano ancora pronti, come se il suonatore di prima fosse stato portato via in barella, e lui fosse quello nuovo deciso a soppiantarlo, fino a stramazzare.
Vi furono altri balli, e poi giochi e penitenze, e altri balli ancora, e poi torte, vin caldo, un gran pezzo di arrosto freddo e un altro bel pezzo di bollito rifreddo, e dolcetti ripieni e birra in gran quantità. Ma il culmine della festa fu toccato dopo l’arrosto e dopo il bollito, quando il suonatore (uno che sapeva davvero il fatto suo!) attaccò “Sir Roger de Coverley” [antica ballata popolare scozzese]. Allora il vecchio Fezziwig si fece avanti per concedersi un ballo con la sua signora. Coppia di testa, per giunta, in un pezzo piuttosto impegnativo, con ventitré o ventiquattro coppie da condurre dietro di loro, gente con cui c’era poco da scherzare, gente che avrebbe tanto voluto ballare, ma che non aveva la benché minima idea di come mettere i piedi.
Ma anche se fossero state il doppio - o addirittura quattro volte tanto - il vecchio Fezziwig si sarebbe dimostrato all’altezza, e così la signora Fezziwig. Quanto a lei, oh, era davvero la sua degna compagna, e se questo vi par complimento da poco, suggeritemene voi uno migliore e io glielo riporterò. I polpacci di Fezziwig rifulgevano di una propria luce, come due lune risplendevano a ogni passo. Le sue gambe si muovevano a straordinaria velocità, impossibile prevedere il passo successivo. E quando il vecchio Fezziwig e la signora Fezziwig ebbero eseguito tutte le figure - avanzata e ritirata, mani alla dama, inchino e riverenza, giravolta, infilata, ritorno alla posizione di partenza -, Fezziwig “sforbiciò” così sapientemente che parve strizzar l'occhio con le gambe, per poi ritornare dritto senza batter ciglio.
Al rintocco delle undici, il ballo terminò. Il signor e la signora Fezziwig presero posizione ai due lati dell’ingresso e strinsero la mano a tutti i partecipanti, augurando a ognuno, maschi e femmine che fossero, un Buon Natale. Quando tutti furono usciti, ad eccezione dei due apprendisti, si scambiarono i convenevoli fra di loro; e così si spensero a poco a poco gli ultimi echi della festa, e i due giovani furono lasciati ai loro letti che si trovavano sotto un bancone nel retrobottega.
Per tutto il tempo della festa Scrooge fu quasi fuori di sé. Cuore e anima si erano completamente immedesimati nel suo giovane sé stesso. Riconosceva ogni cosa, tutto ricordava, godendosi eccitatissimo ogni singolo istante della festa. Fu solo in quel momento, dopo che Dick e il suo giovane sé stesso si voltarono dall’altra parte, che si rammentò della presenza dello Spettro e si accorse che il suo sguardo si era fissato su di lui, e che la fontana di luce che gli scaturiva dalla testa ardeva ora brillantissima.
“Basta così poco,” disse lo Spettro, “per far sentire questi sciocchi così felici.”
“Poco!” gli fece eco Scrooge.
Lo spirito gli suggerì di prestare ascolto a quello che si stavano dicendo i due apprendisti, i quali si stavano spendendo in grandi lodi per i Fezziwig, e disse:
“Perché, non è forse così? Non ha speso che poche sterline del vostro denaro terreno: forse in tutto tre o quattro. È abbastanza da meritare tutte queste lodi?”
“Non è per questo,” disse Scrooge, punto sul vivo da quel commento, rivolgendosi inconsciamente più al suo giovane sé stesso che a quello attuale. “Non è per questo, Spirito. Lui con un solo sguardo, con una sola parola potrebbe renderci più lieti o più tristi; rendere il nostro lavoro più lieve o più gravoso, cose, se vogliamo, impercettibili e sottili, impossibili da tradurre in numeri: e allora? La felicità che regala non ha prezzo.”
Si sentì addosso lo sguardo dello Spirito e smise di parlare.
“Che c’è?”
“Niente,” disse Scrooge.
“Io invece penso che qualcosa ci sia,” insistette lo Spirito.
“No,” disse Scrooge,”No. È che adesso mi piacerebbe proprio dire due o tre paroline al mio impiegato! Solo questo.”
Mentre lo diceva, il suo giovane sé stesso spense le lampade e Scrooge e lo Spettro si ritrovarono di nuovo insieme all’aria aperta.
“Il mio tempo qui sta per scadere,” osservò lo Spirito. “Presto!”
L’esclamazione non era rivolta a Scrooge, né a nessun altro che potesse vedere, ma produsse un effetto immediato. Fu così che Scrooge rivide un’altra volta sé stesso. Ora era più adulto; un uomo nel pieno degli anni. Il suo volto non aveva ancora l’asprezza e la durezza degli anni futuri; ma cominciava già a mostrare i segni dell'irrequietezza e dell’avidità. I suoi occhi febbrili non trovavano pace, rivelando il punto esatto in cui quei malanni avevano attecchito e dove sarebbe caduta l’ombra della mala pianta che stava crescendo dentro di lui.
Non era solo, ma sedeva accanto a una graziosa ragazza vestita a lutto, i suoi occhi erano pieni di lacrime che brillavano alla luce dello Spirito dei Natali Passati.
“Non importa,” disse con un filo di voce. “Di certo a voi importa ancora meno. Un'altra ormai ha preso il mio posto, e se in futuro vi darà tutto il bene che avrei voluto darvi io, non c’è motivo di preoccuparsi.”
“E chi sarebbe costei che vi ha rimpiazzato?”
“Una dea d'oro.”
“Ecco la giustizia del mondo!” disse lui. “Siete povero e vi accoppano, tentate di arricchirvi e avete addosso la condanna dell'intero genere umano!”
“Voi temete troppo l'opinione della gente,” replicò lei con dolcezza. “Avete sacrificato tutte le vostre più grandi speranze per sottrarvi al sordido disprezzo del mondo. Ho visto cadere una dopo l’altra le vostre più nobili aspirazioni, finché la passione suprema, la brama di Guadagno, vi ha completamente divorato. Non è forse così?”
“E con ciò?” ribatté lui. “Anche se fossi diventato più accorto, più giudizioso, dove sarebbe il problema? Io nei vostri confronti non sono mutato.”
Lei scosse la testa.
“Lo sono?”
“La nostra promessa, ormai, non è più valida. Ce la scambiammo quando entrambi avevamo accettato di essere poveri, finché un giorno, Dio piacendo, saremmo riusciti a stare un po’ meglio grazie ai nostri umili sforzi. Voi siete mutato. Allora eravate un uomo diverso.”
“Allora ero solo un ragazzo,” ribatté lui spazientito.
“Lo vedete? La vostra stessa coscienza vi conferma che allora non eravate quel che siete ora,” ribatté lei. “Io lo sono ancora. Quel che ci prometteva felicità quando eravamo un cuore solo, oggi che ne abbiamo due ci dà solo sofferenze. Non sto qui a spiegarvi quanto spesso ci ho pensato, ma vi basti sapere che vi ho pensato, ed è per questo che ora vi sciolgo da quella promessa.”
“Vi ho forse mai chiesto di scioglierla?”
“A parole? No. Mai.”
“E come, allora?”
“Mutamento il vostro carattere, le vostre abitudini, con un diverso modo di intendere la vita, in tutto ciò che vi faceva apprezzare il mio amore per voi,” disse la ragazza, guardandolo dolcemente ma con fermezza, “ditemi, ora provereste lo stesso a conquistarmi? Ahimè, no!”
Lui parve suo malgrado confermare la giustezza della sua ipotesi. Tuttavia, con un ultimo sforzo, disse: “Questo lo pensate voi.”
“Sarei ben felice di pensare il contrario,” rispose lei. “Volesse il Cielo che fosse così! Quando si arriva a comprendere una verità come questa, essa è ahimè ferma e irremovibile. Ma se voi foste libero oggi, ieri, domani, potrei mai pensare che scegliereste una ragazza senza dote - voi, che nei momenti di maggiore intimità con lei valutate tutto secondo le possibilità di guadagno? O se mai, tradendo per un solo istante i vostri stessi princìpi, acconsentiste comunque a sposarla, non vi sentireste poi subito dopo tormentato dal pentimento e dal rimorso? Io credo di sì, e vi rendo la libertà, con tutto il mio cuore, in nome di tutto l’amore che provai per colui che eravate un tempo.”
Stava per ribattere qualcosa, ma lei, voltandosi, riprese:
“Forse, ricordando tutto ciò che vi è stato fra di noi, me lo fa quasi sperare, ne soffrirete. Poco, però, giusto un momento, e poi liquiderete il ricordo con sollievo, come al risveglio da un sogno improduttivo dal quale vi sarete fortunatamente ridestato. Che voi possiate essere felice nella vita che vi siete scelto!”
Lo lasciò, e i due si separarono.
“Spirito!” disse Scrooge, “Non mostratemi altro! Riportatemi a casa, vi prego, perché mi tormentate così?”
“Ancora un’ultima ombra!” esclamò lo Spettro.
“No, no, basta, per carità!”, urlò Scrooge. “Non voglio vederla!”
Ma lo Spettro, inesorabile, lo afferrò forte per le braccia costringendolo a fissare di nuovo lo sguardo.
La scena era mutata, il luogo era cambiato: una stanza, non molto grande né particolarmente bella, tuttavia dotata di ogni comodità. Presso il fuoco invernale sedeva una bellissima fanciulla, così somigliante a quella precedente che Scrooge pensò che si trattasse della stessa persona, finché la vide: ora lei era un’avvenente signora, seduta di fronte alla figlia. Si udiva nella stanza un gran baccano, poiché vi erano presenti più bambini di quanti Scrooge, nella sua confusione, potesse contarne; a differenza di quel famoso gregge citato nella celebre poesia, non erano quaranta bambini che se ne stavano buoni buoni come se fossero uno solo, bensì l’esatto contrario, cioè ciascuno di essi ne valeva quaranta [la poesia è di William Wordsworth, “Written in March”]. Il risultato era un formidabile pandemonio; ma nessuno sembrava preoccuparsene; anzi, madre e figlia ridevano di gusto, addirittura divertite; e quest’ultima, appena rituffatasi nei giochi, veniva subitamente assaltata da quei piccoli e spietati brigantelli. Oh, cosa non avrei dato per essere uno di loro! Benché mai e poi mai avrei potuto essere tanto crudele! Per niente al mondo avrei potuto tirarle le trecce e scioglierle i capelli; e non mi sarei mai arrischiato a strapparle la preziosa scarpina, Dio m’è testimone, nemmeno per scampare alla morte! E quanto a misurarle il vitino, come fecero quegli impertinenti monelli, mai e poi mai avrei potuto osare tanto: mi sarei aspettato per punizione di rimaner col braccio ricurvo per tutta la vita. Eppure, lo confesso, avrei tanto voluto sfiorarle le labbra, porle qualche domanda perché le tenesse dischiuse, osservare le ciglia dei suoi occhi abbassati senza mai farla arrossire; scioglierle le onde dei capelli di cui una sola ciocca sarebbe stata per me un inestimabile tesoro: in breve, avrei voluto godere delle licenze solitamente concesse ai fanciulli restando però abbastanza uomo da apprezzarne il valore.
Ma a quel punto si sentì bussare alla porta, e ne seguì un tale trambusto che la poverina, sorridente e con il vestitino tutto in disordine, proprio nel bel mezzo di quella baraonda, fece giusto in tempo ad accogliere il padre, che rincasava proprio in quel momento accompagnato da un uomo carico di giocattoli e regali di Natale. Quali urla e che lotte nell’assalto a quell’inerme e incolpevole facchino! Come si arrampicavano sopra di lui con le sedie sistemate a mo’ di scale, per poi tuffarsi nelle sue tasche, depredarlo dei pacchetti di carta marroncina, afferrarlo per la cravatta, appendersi al suo collo, tirandogli pugni nella schiena e calci alle gambe in segno di incontenibile affetto! Le grida di gioia e di stupore all’apertura di ogni pacchetto! Il terribile annuncio che il bambino era stato colto in flagrante nell’atto di ingoiare la padella della bambolina, e il sospetto più che certo che avesse inghiottito anche un finto tacchino incollato a un piattino di legno! E l’immenso sollievo nello scoprire che era stato tutto un falso allarme! Quale gioia, quale gratitudine, che felicità! Da non potersi descrivere. Vi basti sapere che un po’ alla volta quei bambini, seguiti da tutto il loro pandemonio, uscirono dal salottino un gradino alla volta, e raggiunto l’ultimo piano, andarono a letto mettendosi a dormire.
Scrooge fu poi colpito da una scena, quando il padrone di casa, con la figlia appoggiata affettuosamente a lui, si sedette insieme alla madre accanto al focolare; e quando gli venne da pensare che un’altra creaturina, altrettanto graziosa e carica di promesse, avrebbe potuto chiamarlo papà ed essere una primavera nel triste inverno della sua vita, gli si appannarono definitivamente gli occhi.
“Bella,” disse il marito rivolgendosi sorridente alla moglie, “questo pomeriggio ho incontrato un tuo vecchio amico.”
“Chi?”
“Indovina!”
“Come vuoi che faccia? Mah, non saprei…” poi aggiunse tutta d’un fiato, ricambiando la risata del marito. “Il signor Scrooge.”
“Proprio lui, il signor Scrooge. Sono passato davanti al suo ufficio; e siccome le finestre erano aperte e la candela era ancora accesa, non ho potuto fare a meno di notarlo. Ho sentito dire che il suo socio è in fin di vita, e lui se ne stava lì tutto solo. Non gli è rimasto più nessuno al mondo, credo.”
“Spirito!” disse Scrooge con la voce rotta, “Portatemi via di qui.”
“Ti ho avvertito che queste sono le ombre delle cose passate,” disse lo Spettro. “Se ora sono quelle che sono, non puoi farmene una colpa!”
“Toglietemi di qui!” esclamò Scrooge. “Non resisto più!”
Si voltò verso lo Spettro, e vedendo che lo stava fissando con una strana espressione che conteneva i frammenti di tutti i volti che gli erano stati mostrati in precedenza, si avventò su di lui.
“Lasciatemi in pace! Riportatemi a casa! Smettetela di tormentarmi!”
Nella lotta, se lotta si può chiamare quella in cui lo Spettro, senza opporre un’apparente resistenza, rimaneva impassibile di fronte agli assalti dell’avversario, Scrooge notò che la sua fontana di luce ardeva sempre più brillante, e sospettando che quella fosse la causa di ogni suo problema, afferrò il berretto-spegnitoio e con mossa repentina glielo calò sulla testa.
Lo Spirito collassò, scomparendo sotto lo spegnitoio; ma sebbene Scrooge premesse con tutte le sue forze, non gli riusciva ugualmente di spegnere la luce che continuava a uscire da sotto il berretto in un flusso ininterrotto che si spandeva sopra il pavimento.
Si sentì improvvisamente stanco, come sopraffatto da un’irresistibile sonnolenza; e si accorse che era ritornato in camera sua. Diede un ultimo strattone al berretto ed ebbe appena il tempo di dirigersi barcollante verso il letto che sprofondò in un sonno profondissimo.